sabato, luglio 28, 2007

Una recensione della recensione: la solita paccottiglia. Elia Valori recensito da Alain Elkan.

Non ho trovato il libro nella libreria Feltrinelli sotto casa, ma da quanto ne dice Alain Elkan su “La Stampa” di oggi 28 luglio 2007, alla pagina VI dell’inserto Tuttolibri, non dubito che il libro di Giancarlo Elia Valori rientri in quel vasto filone di paccottiglia che sta inondando il mercato, credo forse come una campagna preparatoria per nuove avventure belliche in Medio Oriente. Alla vigilia dell’ultima guerra contro l’Iraq si era messa in circolazione la bugia degli inesistenti armanenti di Saddam. Per quanto riguarda la prima guerra erano stati invece taciuti alcuni fatti che si trovano nei documenti ufficiali dell’ONU e che riguardano territori e proventi petroliferi che il Kuwait avrebbe dovuto restituire all’Iraq alla fine della guerra con l’Iran. Ormai, la stampa quotidiana su carta stampata è qualcosa della quale occorre sistematicamente diffidare quanto più alta è la sua tiratura e la sua capacità di diffusione. La verità delle cose – per chi è amante di conoscerla – occorre andarla a trovare in piccoli anfratti. La recensione di Alain Elkan non è per nulla una recensione, cioè una lettura critica del libro. È un’inserzione pubblicitaria che appena serve a richiamare l’attenzione sul libro, di cui si vuol favorire la diffusione libraria. Poiché mi dicono che vi è addirittura un capitolo su Carl Schmitt, vi ritornerò sopra appena lo avrò fra le mani e me ne occuperò nel mio blog “Carl-Schmitt-Studien”.

Qui mi limito solo ad alcune osservazioni del recensore, che sono forse ancor prima sue che dell’autore del libro recensito. La solita solfa sull’antisemitismo, che viebe presentato come una colpa dell’intera umanità verso il popolo ebreo, dando per scontato che gli ebrei non abbiano nessuna colpa verso tutti gli altri popoli esistiti lungo della loro storia. Una comune osservazione di comune buon senso porta a formulare questa semplice domanda: Ma perché nel corso di almeno tre mila anni, prima e dopo di Cristo, tutti hanno sempre dimostrato per lo meno antipatia verso gli ebrei? Un’antipatia che spesso si è manifestata in forme ben più consistenti di quanto non sia una semplice non corrispondenza di amorosi sensi. Possibile che gli ebrei stessi non abbiano nessun neo che abbia potuto renderli a molti odiosi nel corso di tremila anni? Credo che la risposta sarebbe più interessanti di quanto Valori possa dire. Inoltre in 3000 anni di antisemitismo quello specificamente nazista credo che si collochi storicamente negli anni della seconda guerra mondiale all’interno di un contesto ben più grande e tragico di quell’evento che gli autori ebraici vogliono considerare di rilevanza cosmica, adottando perfino una terminologia religiosa che ha ben poco da invidiare ad alcune limitate reazioni musulmane a seguito di citazioni irriverenti dei testi coranici o vignette satiriche. Tutta la storia ultramillenaria dell’antisemitismo viene collocata nella nicchia nazista. In realtà si è trattato di un’operazione politica sulla base della quale alla Germania postbellica ed ai popoli europei vinti, ad Est ed Ovest, si è spillato e si continua a spillare una quantità enorme di denaro, senza il quale non si potrebbe parlare di «miracolo economico» israeliano.

La solfa continua con il paventato timore di un nuovo antisemitismo, mai sopito. Del resto, semiti sono anche gli arabi e semmai dovrebbe parlarsi di antigiudiaismo, cioè di una reazione insofferente verso il solo popolo o comunità ebraica. A mio avviso, non esistono per nulla i pericoli che hanno portato agli orrori della guerra civile europea, di cui hanno sofferto non solo gli ebrei, che non possono in alcun modo pretendere al “monopolio del dolore”, ed ai relativi conforti, spesso di carattere economico. Si è passati da un’indubbia emarginazione e discriminazione quale vi è stata in tutti i paesi d’Europa, Russia compresa, ad una situazione di iperprotezione e di privilegio. Ed il privilegio rende spesso odiosi. Io credo che se oggi antisemtismo vi è, questo non abbia niente a che fare con quello che è stato l’antisemitismo nazista, una goccia nel mare dell’antisemitismo durato tre mila anni. Si tratta piuttosto di una comprensibile reazione a posizioni di privilegio ed iperprotezione, quando non addirittura di sopraffazione come nel caso della occupazione israeliana di terre arabe. Ma qui entriamo nella dinamica di una guerra che dura da almeno 60 anni e che non accenna a spegnersi. Ormai credo che dobbiamo abituarci al concetto di guerra permanente, che si combatte anche nelle retrovie nel campo dei media e dell’educazione delle nuove generazioni da plasmare in modo “politicamente corretto”. Proprio l’altra sera ho potuto assistere, nell’allestimento di un pubblico spettacolo, di uno scoppio di espressioni certamente non gentili verso i calabresi. Mi son subito detto: se al posto di calabresi, si fosse trattato di ebrei, qui sarebbe scoppiato il finimondo. Come calabrese che ha captato l’insulto ho reagito e propestato. Il proprietario mi ha chiesto scusa per le parole del suo dipendente, ma io ormai mi ero perso la voglia di godermi lo spettacolo pagato con il denaro dei calabresi.

lunedì, luglio 09, 2007

Il regno di Aratta: una retrodazione delle più antiche civiltà esistite

Da La Repubblica del 3 luglio:
il cui testo è tutto da studiare:

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Un pool di archeologi è convinto di avere scoperto i resti della mitica città
Gli scavi hanno riportato alla luce delle tavolette incise prima dei sumeri

Tra le rovine del regno di Aratta
la scrittura più antica del mondo

In Iran riemerge una civiltà sepolta: potrebbe cambiare la storia
di VANNA VANNUCCINI


Tra le rovine del regno di Aratta
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Un reperto archeologico di Jiroft

JIROFT (Iran Sud Orientale) - "Gilgamesh sii il mio amante! Fammi dono della tua virilità! Quando entrerai nella nostra casa la soglia splendidamente dorata bacerà i tuoi piedi". Così Ishtar, la dea dell'amore, si rivolge al leggendario re di Uruk nel più famoso poema epico lasciatoci dai sumeri.

"Splendidamente" è scritto nella traduzione, ma la parola sumera è arattù, ovvero alla maniera di Aratta. Aratta era per i sumeri simbolo di eccellenza, il topos di tutti i miti come Troia lo fu per quelli dell'Asia Minore. I poemi sumerici ne parlano come di una città magica, "distante sette montagne", in cui viveva un sovrano che in alcuni testi è "il Signore di Aratta", in altri è chiamato Ensurgiranna.

Gli studiosi si sono affannati a cercare quale luogo geografico potesse corrispondere a questa leggendaria città. Ma finora il mito era rimasto sospeso nel nulla. La singolarità di Aratta infatti è che mentre nelle fonti letterarie vi sono innumerevoli riferimenti alla città e alle sue ricchezze, il nome non compare in nessuna delle 450.000 tavolette di argilla arrivate inalterate fino a noi, nelle quali i sumeri diligentemente registravano scambi commerciali, elenchi dei tributi ricevuti dai sudditi, derrate agricole o editti dei re. Non può essere un caso, sostengono quegli archeologi che ormai si erano convinti che Aratta non fosse mai esistita.

Ma uno scavo recente potrebbe aver riportato alla luce il mitico regno. Se così fosse, sarebbe la scoperta archeologica del secolo. Una nuova Troia.
Che sia così, è il convincimento dell'archeologo iraniano Yussef Majidzadegh, che con una squadra internazionale (di cui fa parte anche l'italiano Massimo Vidale, archeologo dell'Isiao) guida gli scavi di Jiroft, nell'Iran sud-orientale. Majidzadeh sostiene che Jiroft è la più antica civiltà orientale, precedente di almeno un paio di secoli quella sumerica.

L'archeologo presenterà in questi giorni la sua tesi al convegno internazionale di archeologia a Ravenna. "È venuta alla luce una civiltà complessa, pari o per certi versi superiore a quella sumerica per dimensioni urbanistiche, per l'aspetto monumentale e la raffinatezza delle tecniche artistiche. Questo ci obbliga a gettare uno sguardo nuovo sulla formazione delle civiltà tra il IV e il III millennio", dice Massimo Vidale.

La storia comincia a Sumer, è sempre stato il mantra degli archeologi. Perché a Sumer ha inizio la scrittura. Ma dopo la scoperta di Jiroft questo potrebbe non essere più vero. Nello scavo è stato trovato (finora) un mattone con un testo protoelamico, la cui origine si fa risalire a Susa nel 3000 a. C., e tre tavolette con una scrittura ancora indecifrata. Tuttavia la scrittura non sembra avervi avuto un ruolo predominante come tra i sumeri. Per questo, sostiene l'australiano Daniel Potts, Majidzadeh attribuisce a Jiroft una datazione così antica. Secondo Potts Jiroft corrisponde invece a una città più tarda, di grande ricchezza, Marhashi, la cui esistenza è attestata da diversi testi.

Jiroft è una città nella regione di Kerman nota soprattutto per il suo clima umido, subtropicale. Da Kerman, in macchina, ci si arriva in un paio d'ore. Si abbandona la steppa desertica del Dash-e Lut per salire su una zona montuosa, eccezionalmente fresca e verde, per poi ridiscendere nella valle di Jiroft. Da qui non ci sono più barriere montuose fino allo stretto di Hormuz, e l'aria umida del Golfo Persico arriva senza trovare impedimenti. Agrumeti e palmizi da dattero ne fanno la ricchezza. La fonte d'acqua della regione è il fiume Halil, che scende per oltre 400 chilometri dalle montagne del nord.

Quasi un secolo fa un'alluvione cambiò il suo corso, i vecchi ricordano ancora che i loro nonni raccontavano che il Halil Rud voltò le spalle alla città e se ne andò a 800 metri di distanza. Ma nel 2001, dopo un lungo periodo di siccità, il Halil Rud straripò di nuovo, e questa volta sul terreno eroso dalle acque comparvero veri e propri tesori: monili, offerte funenarie, statuette, vasi di clorite (la tipica pietra locale di colore verde scuro). Il giorno dopo, centinaia di contadini impoveriti da anni di siccità accorrono sulle rive del Halil alla ricerca di oggetti antichi 5000 anni.

Si dividono il terreno, con il consenso delle autorità locali, in lotti di sei metri per sei, uno per ogni famiglia, scavano, tirano fuori oggetti di incomparabile bellezza. Diecimila buche, cinque o sei necropoli interamente saccheggiate, e interamente distrutto quel "contesto" che è fondamentale per gli archeologi per studiare e datare gli oggetti. Dove ci sono i tombaroli ci sono naturalmente anche i mercanti.

Non appena si sparge la voce, intermediari e mercanti arrivano da tutto l'Iran, da Kabul, dal Pakistan - e poi da Parigi, da Londra, da New York. Comprano direttamente dal contadino che scava. Un vaso di clorite scolpito, 50 dollari; una statuetta intarsiata, 100; un'aquila fatta come una scacchiera con pezzi di turchese 150. Si ritroveranno nelle case d'asta europee e americane venduti per centinaia di migliaia di dollari. La passione per "i Jiroft" fa nascere addirittura una produzione di falsi. Anche il Louvre ha acquistato cinque pezzi (veri), di cui il governo iraniano sta cercando ora di tornare in possesso.

Il saccheggio durò un anno. Almeno 10.000 oggetti vengono portati via. Finché l'archeologo Majidzadeh, che aveva insegnato a Teheran prima di trasferirsi in Francia, ottenne dal governo iraniano di cominciare uno scavo sistematico insieme a un gruppo di colleghi di diversi paesi. Ora, ci dice il tassista che ci accompagna all'aeroporto di Jiroft, uno come lui, che ha due ettari di terreno e coltiva cetrioli in serra, non può nemmeno fare una traccia per seminare senza ritrovarsi addosso la polizia.

Ma questo non significa che il saccheggio non continui, più silenzioso e con mezzi più sofisticati. Ai contadini sono subentrati i ben più attrezzati contrabbandieri internazionali, muniti di rilevatori, computer, attrezzature per lavorare di notte. Del resto, come ci fa vedere Ali Daneshi, un giovane archeologo locale lasciato a guardia del sito fino al momento in cui in autunno ricominceranno i lavori, lo scavo guidato da Majidzadeh è solo un inizio: i siti già rilevati sono quasi settecento, in un'area di 400 km quadrati.

Entriamo nello scavo e Daneshi si accorge subito che il vetro blindato messo a protezione di una statua senza testa, alta quasi un metro e mezzo e dipinta di colore ocra giallo e rosso con piccole incisioni nere, è stato rotto. Evidentemente di qui non passa soltanto qualche pasdar solitario di guardia. "Cominciammo a scavare da due collinette, distanti l'una dall'altra 1400 metri" racconta Vidale. "In quella nord è venuta fuori una piattaforma gigantesca a gradoni, uno ziggurat, con una base di 300 metri per 300 e un'altezza di 17 metri. L'intera superficie dell'altra collinetta, 200 metri per 300, si è rivelata una struttura monumentale, costruita su un preesistente accumulo archeologico, circondata da mura larghe 10 metri. Ad est della cittadella trovammo un'altra piattaforma, larga 24 metri, che era il quartiere dei lavoratori del metallo. Insomma siamo di fronte a una città ben strutturata, con la cittadella amministrativa, il tempio, i quartieri residenziali e i luoghi di lavoro".

Nel piccolo museo allestito a Jiroft e catalogato da Majidzadeh, gli oggetti esposti sono stati quasi tutti confiscati ai contrabbandieri, fatta eccezione per una vetrinetta con cinque pezzi ritrovati nello scavo. Vasi di clorite scolpiti con motivi di animali e di piante, soprattutto palmizi, forme umane e creature fantastiche, uomini-scorpioni, uomini-leoni, aquile, serpenti. Gli occhi degli animali carnivori sono tondi, quelli degli erbivori ovali come quelli umani. Ogni oggetto è preziosamente incastonato di turchesi, lapislazzuli, marmo, calcare bianco. In alcuni ci sono straordinarie raffigurazioni stilizzate di edifici, di città, di mura fortificate, che non hanno esempi nel mondo antico. Si può capire come il re sumero Enmerkar, nel poema "Enmerkar e il Signore di Aratta", volesse architetti e decoratori di Aratta per costruire i templi agli dei di Sumer.


(3 luglio 2007)
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