mercoledì, maggio 13, 2009

Carlo Varese: Sibilla Odaleta. – Capitolo Primo.

Homepage
Cap. Successivo
Cap. I - II - III - IV - V - VI - VII - VIII - IX - X - XI - XII - XIII - XIV - XV - XVI - XVII - XVIII - XIX - XX - XXI - XXII - XXIII - XXIV - XXV - XXVI - XXVII.


SIBILLA ODALETA

Capitolo Primo.

..... Ecco opportuna
Già la stagion che a guerreggiar s’aspetta
Perché dunque frappor dimora alcuna
A liberar Gerusalem soggetta?
Tu i Prìncipi a consiglio omai raguna,
Tu al fin dell’opra i neghittosi affretta.

Tasso.

Nel 1493 esercitava Lodovico Sforza detto il Moro l’uffizio di tutore del di lui nipote Giovanni Galeazzo duca di Milano, maggiore già di vent’anni, ma povero d’ingegno e di salute. Teneva egli da molto tempo le redini del governo, e, dal titolo di duca in fuori, dominava coll’ampiezza del potere di un principe assoluto, poiché in propria podestà avea ridotte le fortezze, le genti d’armi ed il tesoro dello Stato. Ma ambizioso oltre ogni credere, non poteva dormir tranquillo per un andamento di cose affatto precario; e perciò pensava seriamente ai modi di liberarsi del nipote, non perché lo tenesse capace di riprendersi da sé il supremo comando, ma perché Isabella d’Aragona, di lui moglie, donna di spirito virile, non cessava di stimolare il padre suo, Ferdinando re di Napoli, a non tollerare più a lungo tanta vergogna; e caldamente lo pregava perché prendesse in considerazione il pericolo delle lor vite continuamente esposte con quelle dei loro figliuoli alle insidie ed alla mala fede di Lodovico. Per altra parte egli sapeva essere il suo nome odioso al popolo, e somma la compassione che ciascuno avea per l’infelice Giovanni Galeazzo legittimo signore di Milano: ond’è che per giungere a’ suoi fini, sparse dapprima a piene mani semi di discordia tra il Re di Napoli ed Alessandro Sesto (Rodrigo Borgia, il quale avea l’anno addietro immeritamente carpita la tiara), affinché, suscitando in costui a Ferdinando un gagliardo nemico, a questo venisse per esso diminuita e la possanza e la facoltà di sostenere i diritti del genero. Alcuni fatti che in altre circostanze sarebbero stati considerati di nessun conto, gli servirono di pretesto; e presentati poi con maligna disposizione, inacerbirono talmente l’animo del superbo Pontefice, che il di lui rancore non aspettava che il destro per umiliare l’inquieto suo vicino.

Questi dissapori però non sembravano agli occhi dell’accorto Lodovico di natura inconciliabile, sia perché Alessandro era di suo carattere instabile, sia perché Alfonso, figlio primogenito di Ferdinando, pareva inclinasse a stringere legami di matrimonio tra Sancia sua figliuola naturale, e Gioffredo figliuolo del Papa.

Era anche l’anno prima morto in Firenze Lorenzo de’ Medici: luttuosa perdita non solo per quella Repubblica, ma per tutta Italia, poiché alla tranquillità di tutti maravigliosamente contribuiva l’ingegno, la prudenza e la riputazione di quel principe. Egli era il solo che sapesse moderare e metter freno all’ambizione di Ferdinando e di Lodovico, che per esser di potenza quasi eguale, e per i riferiti motivi, vivevano in continui dispiaceri e sospetti.

Era a lui succeduto Pietro, di gran lunga inferiore al padre; e questi, per consiglio di Virginio Orsini suo parente, si restrinse talmente con Ferdinando, che Lodovico Sforza ebbe giusta ragione di temere che ogni qualvolta volessero gli Aragonesi prorompere nel Ducato di Milano, o negli Stati Pontificii, avrebbero avuto a sostegno le armi della Repubblica di Firenze. Egli rivolse perciò l’animo a ricercare più efficaci rimedii al male che lo minacciava.

Regnava in Francia Carlo VIII, figlio di Luigi XI. I suoi predecessori aveano più volte con diversa fortuna assalito il reame di Napoli, conceduto in feudo, per ragioni che sarebbe superfluo addurre, da Urbano IV pontefice romano, fino dal 1274 , a Carlo conte di Provenza e d’Angiò, fratello di San Luigi. Tale concessione, benché fosse chimerica, poiché in realtà il Regno di Napoli non fu mai feudo di Roma, fu sostenuta con varia fortuna dai sovrani di Francia, e passò per ultimo in retaggio a Carlo VIlI.

Questo principe, naturalmente guerriero, ambiva di acquistare colle armi quel regno come giustamente appartenente a sé; e non l’ignorava Lodovico Sforza. Giudicò quindi quest’ ultimo esser unico mezzo di umiliar Ferdinando ed assicurarsi il dominio di Milano, chiamare in Italia le armi di quel giovane Monarca, offerendogli potente aiuto di soldati e di denaro.

Tutto diretto all’esecuzione di questo disegno, del quale non calcolò però con quella saviezza e prudenza che pretendeva possedere, le possibili conseguenze, apertamente spedì a Carlo, benché con altri colori cercasse di velarne le cagioni vere, ambasciatore Carlo da Barbiano, conte di Belgioioso. Da sagace politico, e colla scorta delle suggestioni di Lodovico, questi presentò a quel monarca sotto si bell’aspetto quella conquista, ne mostrò con tanta chiarezza la facilità, ne nascose con tant’arte i pericoli, seppe esagerar così bene la gloria che ne tornerebbe alla Francia, dar peso alla giustizia della causa, e pregio ai frutti della vittoria, ed insieme allontanare ogni sospetto d’interesse privato nell’animo di Lodovico, che Carlo, giovane di ventidue anni, per natura poco intelligente delle azioni umane, trasportato da ardente sete di dominare e da appetito di gloria, decise di passar l’Alpi, e, novello Annibale, venirne alla conquista d’ Italia.

Non mancarono però molti Signori e Grandi di Francia, i quali accolsero con diffidenza sì magnifiche prospettive. Fra questi, Giacomo Gravilla, grand’ammiraglio, uomo che godeva fama di autorevole saviezza, schierò dinanzi al Re ed al Parlamento ragioni tali che bilanciarono quelle dell’Ambasciatore italiano.

Mostrò da una parte le difficoltà di una guerra in paese lontano, la fama ed il valore di Alfonso duca di Calabria, le astuzie e gli artifizii italiani, e la mala fede di Lodovico; dall’altra, richiamò alla memoria la mancanza di denari, le controversie coi Re vicini, che importava in caso di guerra comporre con sagrifizii dannosi e poco onorevoli. Ma né questi né altri simili riflessi valsero a distogliere l’animo di quell’imprudente monarca, poiché fortemente lo instigavano, per motivi che diremo poi, Stefano di Vers linguadochese, e Guglielmo Brissonetto, prima generale di Francia, poi vescovo di San-Malò, non che varii Principi e molti Baroni banditi dal Regno di Napoli, e ritirati in Francia.

Prima di oltrepassare le barriere che la Natura pose tra la Francia e l’Italia, i diversi Potentati di questa nostra bella penisola furono segretamente esplorati per calcolare al giusto su quali soccorsi si poteva contare, e quali ostacoli si sarebbero incontrati.

Alessandro VI, ansioso di vendicarsi di Ferdinando, e di vederlo umiliato ed anche detronizzato, aderiva alle istanze di Lodovico, ed incoraggiava la venuta di Carlo in Italia.

I Veneziani e i Sanesi, ai quali non conveniva troppo che le fiorite sponde di Partenope divenissero sede di un monarca straniero, richiesti da Filippo di Comines, signore di Argentone, se, avversi al Re di Francia, si sarebbero opposti, o se favorevoli lo avessero assecondato, si sbrigarono alla meglio con inconcludente risposta.

I Fiorentini, benché minacciati di essere privati del commercio con la Francia se avessero ricusato di prestarle armati e denaro, non vollero abbandonare gli Aragonesi, poiché Pietro de’ Medici, misurando le cose più con la volontà che con la prudenza, sperava che la spedizione d’Italia avesse a terminare in vani rumori: e persistette in voler correre con Ferdinando la medesima fortuna.

Ma Carlo aveva in suo cuore fortemente deciso di condurre a termine l’ideata invasione; laonde, questi ostacoli poco o nulla calcolati, messi a fine i preparativi nel corso dell’anno 1493, preceduto dalla fama del valor francese scese nell’anno successivo in Italia alla testa di formidabile esercito. Lo seguirono tutti i Signori ed i Capitani del Regno. Il nerbo delle sue truppe si componeva di Guasconi, gente gagliarda, armata e disciplinata alla maniera degli Svizzeri, di varii battaglioni di questi guerrieri montanari, che allora più che mai aveano acquistato riputazione di forti e coraggiosi per le recenti vittorie di Granson e di Morat, riportate nel 1476 sulle falangi del terribile duca di Borgogna Carlo il Temerario, e di compagnie di gendarmi a cavallo, dove per la prima volta servivano i gentiluomini della più distinta condizione, i quali avevano sino allora temuto di macchiare la nobiltà loro col farsi ascrivere in compagnie assoldate, ma che liberatisi da quel pregiudizio si distinsero dappoi con ogni sorta di virtù militare.

Intanto scorrevano l’Italia, già tremante sul destino che la minacciava, uomini che o creduli od impostori, facevano professione di avere, o per scienza, o per inspirazione divina, conoscenza delle cose future, e le pronosticavano con impudente sfacciataggine. Costoro, o sia che dai Francesi o da Lodovico fossero assoldati, o sia che la paura ingrandisse realmente ai loro occhi i pericoli, andavano predicando esser giunto per l’Italia l’estremo fato; e parlare il Cielo in mille modi con accidenti strani, con orrende apparizioni, quali da molti secoli non si erano più nel mondo osservate. Affermavano ch’ eransi veduti nella Puglia tre Soli (di notte!…) e in un cielo nubiloso: che orribili fulgori e tuoni aumentavano il terrore di quel fenomeno; che nel territorio di Arezzo era per molti giorni passata visibilmente una non numerabile quantità di uomini armati sopra grossissimi cavalli, ed accompagnati da terribile strepito di trombe e di tamburi; che in molti luoghi aveano sudato le immagini e le statue sacre; ch’ erano accadute in somma in diverse parti d’Italia infinite cose tutte fuori dell’ordine della natura. Tali stranezze passavano di bocca in bocca, e venivano così sempre più sfigurate ed ingrandite da immaginazioni percosse dal terrore e dalla superstizione. Consolava soltanto taluni il non essersi ancora osservata quella cometa che gli antichi riputavano certissima messaggiera della mutazione degli Stati e dei Regni.

Erano in questa disposizione gli spiriti e le cose d’Italia quando Carlo mosse di Francia; ma, nel frattempo scorso dalla partenza di lui all’arrivo suo in Toscana, si cambiarono in parte le propizie circostanze che al valor francese agevolar doveano l’ambita conquista. Giovanni Galeazzo Sforza, ostacolo principale all’ambizione di Lodovico, che da lungo tempo giaceva infermo nel castello di Pavia, venne a morte, e fu opinione di quei tempi che un lento veleno datogli dallo zio ne fosse cagione: per tale avvenimento, al quale tenne immediatamente dietro l’elezione di Lodovico a duca di Milano, cangiaronsi le disposizioni ostili di questo principe; aggiungasi ch’egli fu pure inacerbito dall’essere stato costretto a dare in ostaggio di sua fede quel castello a Carlo, ed a somministrargli dugentomila ducati: perciò, forte gli increbbe d’aver egli stesso aperte le porte d’Italia alle armate di oltremonte, e dall’esperienza instrutto, pensava che difficil cosa sarebbe stato il frenare in progresso l’ambizione di un monarca vincitore, che in sua mente ruminava non solo la conquista d’Italia, ma ben anco quella della superba Costantinopoli.

Ferdinando, a cui la minacciata invasione di Francia e la difficoltà di opporvisi gravissimi affanni cagionarono, finì in pochi giorni di vivere. Alfonso, erede del trono, si affrettò di ammansare l’ire di Alessandro: quindi sparirono anche le nuvole di dissensioni tra il Pontefice romano e quel principe; ed a suggellare la pace furono conchiuse le ideate nozze, delle quali noi demmo più sopra un cenno, tra Sancia e Gioffredo. Tali e sì importanti cangiamenti in pochi mesi avvenuti furono di non piccol pensiero a Carlo; e se l’impresa non fosse stata cominciata, se la vergogna di dovervi pubblicamente rinunziare non l’avessero ritenuto, avrebbe senza dubbio fatto luogo a più prudenti consigli.

Quest’incagli furono però resi meno notabili dai seguenti fatti. Un’armata sotto il comando di D. Federico, fratello del Re, era partita da Napoli coll’idea di presentarsi nelle acque di Genova, dove speravasi, per segrete intelligenze coi fuorusciti di quella città, in una sollevazione che avrebbe dato in loro potere quel porto prima che il Re di Francia, il cui pensiero era di attaccar Napoli per terra e per mare contemporaneamente, avesse potuto radunarvi le galere di Marsiglia. L’armata del principe Federico, a quanto raccontano gli Storici, era forte di trentacinque galee sottili, diciotto navi e varii legni minori, muniti di buona artiglieria e montati da tremila fanti da sbarco. Erano molti anni che il Mar Tirreno non aveva veduto una flottiglia così ben provveduta, e meglio armata, onde a ragione speravasi un felice successo di questa intrapresa. Ma troppo tardi si era mossa da Napoli, poiché i Francesi avevano avuto il tempo di antivenire i loro disegni; ed il Bali di Digione, con duemila Svizzeri assoldati dal Re di Francia, erasi impossessato di Genova, ed avea messe in ordine molte navi e galee, le quali, unite a quelle di Marsiglia, potevano opporre validissima difesa; quindi quella impresa, facilissima ove fosse stata tentata un mese addietro, era divenuta ardua e laboriosa: ed il principe Federico dopo alcuni scontri di poco momento nella riviera di Levante, perduta omai la speranza d’impadronirsi di Genova, e non volendo avventurarsi ad una lotta di esito incerto perché da essa poteva dipendere la sorte del Regno, rimandò le sue navi a Napoli, e ritirossi colle galee sottili nel porto di Livorno nel momento appunto in cui Carlo di Francia mettea piede nella Toscana. Questa specie di ritirata, quantunque inconcludente perché rimaneva tuttora intatta la marineria aragonese, imbaldanzì il Monarca ed i fautori della guerra; e la viltà di Pietro de’ Medici diè loro l’ ultima spinta a proseguire in quella mal augurata impresa. Questo principe il quale, finché l’armi di Francia erano lontane avea animato la Repubblica di Firenze ad opporvisi con ogni possa, tosto che le vide balenar da vicino, temendo del pari e l’ira di Carlo e quella del popolo che l’abborriva, uscì segretamente di Firenze, e portossi a Serezana ad inchinar quel monarca onde placarlo, e comprarne la protezione: quindi, senza alcuno speciale incarico della Repubblica piegò ad ogni più superba inchiesta, promise gran somma di danaro, e molte fortezze per garanzia della fede fiorentina. Ma ritornato in Firenze trovò tutti gli animi fortemente esacerbati contro di lui, ed il popolo in sollevazione: ché l’ aver ceduto con tanta pieghevolezza alle orgogliose ed immoderate richieste di Carlo pareva anche ai meno forti insopportabile viltà; e tanta fu l’indignazione di tutti, che avviatosi al Palazzo della Signoria per render conto di quanto aveva operato, gli fu preclusa l’entrata da diversi magistrati, che armati di tutto punto s’erano messi a quella in guardia. Erano fra questi Jacopo de’ Nerli e Gualterotto, giovani entrambi di alto lignaggio e ricchi, che acremente il rampognarono; e intorno ad essi tumultuariamente il popolo si affollò, sì che quasi gli veniva meno il tempo di montare a cavallo per fuggirsene in Bologna accompagnato da’ suoi fratelli il cardinal Giovanni e Giuliano. Quindi il popolo si armò, dichiarò di propria sua autorità ribelle Pietro; furono riempiute le case di paesani, e per tutto si preparava un’arrabbiata difesa ove Carlo avesse insistito nelle oltraggiose dimande consentite da Pietro.

Frattanto, tuttoché lo sdegno di Carlo fosse non piccolo per tanta opposizione, si aprirono a Signa, luogo da Firenze sette miglia distante, nuovi negoziati; ma persisteva Carlo, e persistevano i Fiorentini. Finalmente vennero in accordo che Carlo sarebbe stato in sembianza di amico accolto in Firenze, dove, coi supremi magistrati in persona, si sarebbero pacificamente discusse le contestazioni, e ne fu determinata l’epoca col dì diciassette novembre 1494, cioè nove giorni appunto dopo che Pietro de’ Medici n’era stato ignominiosamente cacciato.

Queste nozioni preliminari, come quelle che sono affatto conformi alla storica verità, saranno ignote a pochi che delle patrie cose non sieno del tutto digiuni; ma abbiamo creduto necessario permetterle per richiamarle a memoria a quelli ai quali sono note, e per intelligenza di un lettore straniero, o di chi non avesse ancora trovato il tempo e il modo d’instruirsi nelle storie d’Italia nostra.

Carlo Varese: Sibilla Odaleta. – Avvertimento degli Editori.

Homepage


AVVERTIMENTO
DEGLI EDITORI

La Sibilla Odaleta, romanzo storico del signor D. Carlo Varese, fu ristampato in quasi tutti i piccoli Stati d Italia nostra. Crediamo doverlo dire alla prima pagina di questo libro, non per farne l’elogio, ché ben sappiamo come le molte edizioni non sieno sempre la misura del merito di un’opera, ma per notare che nessuna di esse fu consentita dall’autore. Questa che noi offriamo al Pubblico, seconda edizione milanese, di miglior sesto e di caratteri più nitidi, fu anche riveduta dal sig. Varese stesso; per cui speriamo ch’essa verrà favorevolmente accolta, e otterrà sulle altre quella preferenza che le è dovuta.

Carlo Varese: Sibilla Odaleta. – Dedica al Cavaliere Giuseppe Compagnoni.

Homepage

AL CAVALIERE

GIUSEPPE COMPAGNONI

Potete aver dimenticato, mio caro Compagnoni, che la Sibilla Odaleta è il primo romanzo storico e Ch'io ho pubblicato. Vi ricorderete però che questa operetta mi ha procurata la vostra amicizia, unico ma gratissimo frutto da me raccolto sul sentiero delle amene lettere. Essa dunque è cosa vostra, vostra fin nelle conseguenze, che il favore da Voi concessole ha fatto nascere. Se quando Vi fu presentata manoscritta l’aveste segnata col marchio della vostra riprovazione, avreste soffocato con lei buon numero di eroine e di eroi Liguri, Francesi, Sardi, Lombardi, e Dio sa di quali altre nazioni; omicidii a cui non pensavate allora, tanto è vero che non si pensa mai a tutto, e che gli avvenimenti più gravi tengono bene spesso a cagioni di lievissimo momento!

Il nostro Stella venne, pe’ suoi fini, in determinazione di ristampare questa mia Sibilla ed io, pe’ miei, venni in quella di tormi il velo dell’anonimo e di accettare la responsabilità de’ miei scritti. Ma penso dividerla con Voi , mio dilettissimo Compagnoni, fregiando del vostro bel nome le prime pagine del mio libro. Direi che sarà per esso come una fronda d'alloro che scongiurerà i fulmini, se non sapessi che il fuoco del cielo si scaglia soltanto sulle torri e sui campanili; scongiurerà dunque le fiamme della terra che non isdegnano investire i più umili fumaiuoli.

Piacciavi, mio ottimo Compagnoni, gradire questo tenuissimo tributo della mia riconoscenza, il solo ch'io possa offerirvi, e tenetemi pel più affezionato de' vostri amici.

Voghera li 15 luglio.

Varese Carlo.

Carlo Varese: Sibilla Odaleta. – Homepage.



La “Sibilla Odaleta” appartiene al genere romanzo. Usciva anonimo lo stesso anno dei “Promessi Sposi” del Manzoni, che tutti abbiamo studiato a scuola, assumendone i canoni stilistici e linguistico-lessicali. Pur avendo avuto all’epoca un considerevole successo, il romanzo di Carlo Varese è caduto nel dimenticatoio. Grava sul testo anche un’accusa di antisemitismo, anche se nel 1827 il termine “antisemita” non era ancora stato coniato. Anche a scopo documentario può essere utile farsi un’idea di quale fosse il panorama culturale italiano nel 1827 e cercare di capire da cosa sia stata determinata nei decenni successivi la fortuna e la caduta in oblio del testo di Carlo Varese, che subito dopo la “Sibilla” si produrrà con un nuovo romanzo, La Fidanzata Ligure che non avrà maggior fortuna del precedente. Il testo ebbe una seconda edizione, riveduta dall’Autore, nel 1832. In questo blog si segue questo testo, che è di pubblico dominio in Google Libri. Si trova in rete un’ottima edizione digitale a cura di Guido Mura del testo del 1827, al quale si rinvia. Il nostro piano di edizione prevede una trascrizione diretta del testo della seconda edizione del 1832, con nostra propria iconografia e tutto lo studio possibile del testo secondo i propositi sopra enunciati. Non sappiamo adesso ciò che potremo scoprire seguendo le tracce del testo di un autore certamente dimenticato, non sapremmo dire se a ragione o a torto.

Al Cavaliere Giuseppe Compagnoni.

Avvertimento degli Editori.


Capitolo Primo.

…Ecco opportuna
Già la stagion che a guerreggiar s’aspetta
Perchè dunque a frappor dimora alcuna
A liberar Gerusalem soggetta?
Tu i Principi a consiglio ormai raguna,
Tu al fin dell’opra i neghittosi affretta.

Tasso

Capitolo Secondo







domenica, maggio 10, 2009

Giuseppe Mazzini: «La Fidanzata Ligure» (I, 2 - 1828)

Homepage
Il post, con successivi aggiornamenti, è stato trasferito su un nuovo blog interamente dedicato agli scritti di Giuseppe Mazzini. Vai qui.

II.
LA FIDANZATA LIGURE
OSSIA USI, COSTUMANZE, E CARATTERI DEI POPOLI DELLA RIVIERA
AI NOSTRI TEMPI.

Nuovo Romanzo dell’Autore della Sibilla Odaleta.

Edizione Nazionale: Volume I, pp. 25-28. Apparve inizialmente anonimo in Indicatore Genovese, n. 1, del 10 maggio 1828.

Gualtiero Scott pinse i costumi degli Scozzesi, e piacque utilmente, perché la Scozia, posta sotto l’influenza di singolari cause morali e fisiche, presenta un quadro, in cui grandeggiano le virtú, e i robusti delitti che accompagnano i popoli fluttuanti fra la nativa ferocia, e la novella civiltà. In Italia, la Corsica, e la Sardegna offrirebbero tuttora un campo fecondo a chi volesse ritrarre gli uomini, com’escono a un dipresso dalle mani della natura.

Ma poiché somiglianza di vicende, bisogni uniformi, e comunicazioni abituali tra popoli, indebolirono l’indole primitiva delle nazioni, la riviera Genovese non somministra singolarità d’usi, e costumi, che valga a far materia d’un romanzo, dove il genio non sappia trarre partito dalle poche diversità, figlie dell’antica forma di reggimento, e dal mare, che le bagna. Né seppe trarlo l’autore della Fidanzata, il quale descrisse, come esclusivamente Liguri, caratteri, ed abitudini di tutti i tempi, e luoghi, dacché v’han dappertutto onesti commercianti, albergatrici ciarliere, e stravaganti fanciulle.

Gl’intoppi, che la gelosia d’una donna, nomata appena, frappone tra i due fidanzati, formano una orditura priva d’incitamento che la novità versa pur sempre nell’animo di chi legge, e senza l’utile d’un fine morale. Del resto, nessuna originalità di caratteri, del che fan fede, tra gli altri, l’Erasmo, tolto di peso dalla Prateria di Cooper, e l’Ida, il cui modello sta nella Chiara dell’Acque di S. Ronano. Lo stile, malgrado i frequenti sali, e alcune reminiscenze dello Sterne, procede in generale freddo, e negletto. Il Romanzo intero, tranne il delirio d’Ida, e pochi altri squarci che parlano al cuore, non varca i confini del mediocre.


NOTE, COMMENTI E APPARATI

(Fra parentesi tonde le note originali di Mazzini,
quadre quelle del Blogger.
Si rinvia invece all’Edizione Nazionale
per le note e le introduzioni dei Curatori.

Le illustrazioni al testo sono attinte liberamente dalla Rete.
Verranno soppresse in caso di contestazione degli aventi diritto)

L’Autore del romanzo recensito dal giovane Mazzini, indicato non con il suo nome ma come autore di un precedente romanzo, La Sibilla Odaleta, si chiamava Carlo Varese (1793-1866). Sia “La Fidanzata Ligure” che “La Sibilla Odaleta” si possono scaricare da Google Libri. La “Fidanzata” ebbe anche una lunga recensione, stroncatoria, sulla Antologia, anno 1828, tomo XXXI, fascicolo di luglio n. 91 , pp. 115-128 a firma K. K. Y., che dovrebbe essere del Tommasèo che tenne conto della recensione già fatta dal Mazzini (cfr. p. 115). A prescindere dal valore letterario dei romanzi di Carlo Varese, morto nel 1866, scopriamo che il suo nome ricorre nella letteratura sull’antisemitismo. Nel suo romanzo, che fu alquanto popolare ma che oggi non si trova più menzionato neppure nel Dizionario Bompiani, si faceva riferimento agli “omicidi rituali” praticati dagli ebrei. Contro la sua opera e la sua memoria è scattata la censura ebraica ed è cosa che fa riflettere, imponendo perlomeno una revisione del giudizio critico stratificatosi nel tempo. Si veda al riguardo questa pagina, nel contesto di un convegno sull’«Olocausto» tenutosi nel 1999 e dove fin dalla notte dei tempi, pare di capire, tutti stavano a preparare la Shoah. Il romanzo di Carlo Varese è del 1827!

Giuseppe Mazzini: «Dell’amor patrio di Dante» (I, 1 - 1826 o 1827)

Homepage
Vol. I, Capp. 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26.

I.
DELL’AMOR PATRIO DI DANTE.
(1826 o 1827)

Edizione Nazionale: vol. I, pp. 1-23. Edito originariamente nel Subalpino, Giornale di Scienze, lettere ed arti, ann. II, vol. I [1837], pp. 359-385.

Quando le lettere formavan, come debbono, parte delle istituzioni, che reggevano i popoli, e non si consideravano ancora come conforto, bensí com’utile ministero, fu detto il poeta non essere un accozzatore di sillabe metriche, ma un uomo libero, spirato dai Numi a mostrare agli uomini la verità sotto il velo dell’allegoria; e gli antichi finsero le Muse castissime vergini, e abitatrici dei monti, perché i poeti imparassero a non prostituire le loro cetre a possanza terrestre.

Ne’ bei secoli della Grecia, i poeti, non immemori della loro sublime destinazione, consecravano il loro genio all’utile della patria; ed altri, come Teognide, spargevano tra’ loro concittadini i dettati della saggezza; altri, come Solone, racchiudevano ne’ loro poemi le leggi, che fanno dolce il viver sociale; altri, come Pindaro e Omero, eternavano i trionfi patrii; altri, come Esiodo, consegnavano ne’ loro versi i misteri, e le allegorie religiose. – Cosí santissimo uffizio affidava la patria ai poeti, l’educazione della gioventù al rispetto delle leggi religiose e civili, e all’amore della libertà; e finché l’inno d’Armodio, e le canzoni d’Alceo suonarono sulle labra dei giovani Greci, non paventarono né tirannide domestica, né giogo straniero.

Ma, come la civiltà degenerata in corruttela, i guasti costumi, il lusso, e il tempo distruggitore d’ogni buona cosa, ebbero inchinata la mente degli uomini alla servitù, e la prepotenza de’ pochi giganteggiò sulla sommessione abbietta de’ molti, la poesia tralignò anch’essa dalla sua prima indipendenza, si trafficaron gli ingegni, e furono compri da chi sperava, che il suonar delle cetre soffocasse il lamento dell’umanità conculcata; la poesia divenne l’arte di lusingare la credulità, e la intemperanza dei popoli; attizzò all’ire e alle voluttà i tiranni, e si fe’ maestra spesso di corruttela, quasi sempre d’inezie.

Hanno tutte le nazioni, e noi più ch’altri abbiamo, immensi scrittori, e troppi forse poeti. Ma quanti furono coloro, i quali non prostituirono l’ingegno, e la penna alla tirannide politica (perché anche la repubblica delle lettere ha i suoi dittatori)? – Le corti, le sette, le scuole, le accademie, i sistemi, e i pregiudizi, che ogni secolo trascina, corruppero i più, e pochissimi furono quei grandi, che non seguitarono stendardo, se non quello del vero, e del giusto. – De’ primi la posterità fece severo giudicio, ma dei secondi affidò la memoria all’amore di tutti i buoni, e loro commendò di serbare intatto quel sacro deposito a conforto nelle sciagure, e ad incitamento ne’ tempi migliori. Fra questi sommi, che stettero incontaminati in mezzo all’universale servaggio, e non mirarono ne’ loro scritti, come nella lor vita, che all’utile della patria; l’Italia avida di lavar la memoria dell’antica ingiustizia, diè il primato, quasi senza contrasto, al divino Alighieri, e se orgoglio municipale o spirito di contesa mossero alcuni a ribellarsi contro l’universale sentenza, fu leggiero vapore in un bel cielo sereno. – Un uomo di cui son calde ancora le ceneri, e di cui vivrà bella la memoria tra noi, finch’alme gentili alligneranno in Italia, pareva avere rivendicato a Dante il vanto d’ottimo cittadino in tal guisa, che più non dovesse sorgere alcuno a contrasto. – Pure da qualche tempi diversi libri, che vennero a luce, senza risuscitare la disputa, mossero alcune querele conto l’amor patrio dell’Alighieri; e a queste querele fece eco un letterato italiano, il quale in una sua lettera, che inserí in uno degli ultimi numeri della Antologia [1], accusollo d’intollerante, e ostinata fierezza, e d’ira eccessiva contro Fiorenza. – Perloché stimiamo bene d’opporre alcune nostre considerazioni a questa rinascente opinione: che se non ci verrà fatto di dir cose nuove, ci conforteremo pur col pensiero, che le voci di un italiano, quali esse siano, non andranno del tutto perdute presso la presente generazione, ove ragionino di cose, che toccan dappresso l’onor nazionale.

A voler giudicar dirittamente dalle ragioni d’un’opera, dei motivi, che la dettarono, dei sentimenti sotto la inspirazione de’ quali fu scritta, e quindi della sua interpretazione, parmi affacciarsi un’unica via, troppo spesso negletta; lo studio de’ tempi, in cui fu composta e quello della vita dello scrittore.

Uno sempre è l’amor patrio nella sua essenza, e nel suo ultimo scopo; ma, come tutti gli affetti umani, subisce varie modificazioni, e veste forme diverse secondo che mutansi le abitudini, le costumanze, le opinioni religiose e civili, e le passioni degli uomini, che costituiscono questa patria, all’utile della quale si mira. – Come dunque variano i bisogni della patria, variar debbono i mezzi per cui può giungersi a soddisfarli o reprimerli, e quindi la direzione, che seguirà l’amor patrio in un secolo sarà totalmente diversa da quella d’un altro. – Ne’ bei tempi della romana repubblica il vero amor patrio era quello di Cincinnato; Bruto mostrò qual fosse sotto i principj della tirannide; Cocceo Nerva insegnò agli uomini qual alta prova rimanga a darsi dell’amor patrio, quando la servitù e irreparabile. – Ecco come la differenza de’ tempi modificava lo stesso affetto, che ardeva nell’anima di questi tre sommi. – Nello stesso modo s’esercita l’influenza dei tempi sugli scrittori, onde nascono le diverse tinte, che segnano le epoche varie di tutte le letterature. – Finché la storia della letteratura si confuse colla storia dei letterati, le strettissime relazioni, che passavano fra le istituzioni, e le costumanze d’un popolo, e la sua letteratura, sfuggirono inosservate; ma si scoprirono, quando le ricerche storico-letterarie presero una direzione più filosofica. – La tendenza del genio d’uno scrittore dipende in gran parte dalla posizione degli oggetti, che lo circondano; quindi l’amor patrio, ch’egli avrà in petto, apparirà in mille guise, secondo la diversa disposizione degli elementi sociali, de’ quali lo scrittore è in certo modo lo interprete. – In un secolo si manifesterà ravvolto in un magnanimo sdegno, dove in un altro si sarebbe confuso con un suono di lusinga e di pace. – Ponete uno storico (dotato d’altronde di tutte le qualità, che costituiscono l’uomo grande) nel secolo d’Augusto, testimone della calma, figlia della stanchezza, nella splendida corte, che imprimeva una nuova direzione all’attività del carattere romano, in mezzo alla apparente felicità, prodotta dal progresso della civiltà e della letteratura; e voi avrete Livio. – Trasportate lo stesso individuo dopo il regno di Nerone, sul principio di quello di Domiziano, dove era spenta ogni antica virtù, dove l’uomo strisciava privo di dignità in mezzo al contrasto della tirannide più feroce e della più umiliante viltà; e avrete Tacito. – Ambi erano di amor patrio caldissimi, ma il primo, sedotto dall’apparente tranquillità, credé Roma felice, e quindi tessé la storia delle sue antiche grandezze più com’inno, che lusinga l’orecchio dei forti, che come acerba rampogna al torpore dei neghittosi; laddove Tacito, venuto ai tempi, che non concedevan l’illudersi, scrisse la sua, come l’ultimo eco della libertà fuggitiva, non risparmiando ai suoi coetanei il quadro della loro immensa viltà.

A’ tempi dunque è d’uopo guardare per conoscere, se il linguaggio d’uno scrittore è tale, che possa dirsi spirato dall’affetto della sua patria, conveniente cioè alla situazione in che questa giace. Or quali furono i tempi dell’Alighieri? Come ordinati gli elementi sociali? Una brevissima esposizione della particolare fisionomia di quel secolo, dei tratti, che lo caratterizzano, e lo distinguono da’ successivi, non sarà forse inutile per coloro a’ quali non è dato l’inoltrarsi molto nella storia dell’età media.

L’Italia del secolo decimoterzo offeriva riunito allo sguardo quanto ci presentò successivamente la storia intera del globo. Tutte le diverse forme di civili, e politiche istituzioni si dividevano le sue città. – Tutti gli elementi, che creano la miseria, o la felicità delle nazioni s’agitavano nel suo seno. – Una somma energia, un valore indomito, una insofferenza di giogo, una irrequieta fecondità nel formare progetti, una feroce costanza nel superare gli ostacoli, che s’attraversavano, stavano a contrasto con una rabbia di dominazione, con una smania di sovvertimento, con una intemperanza d’audacia, col più violento spirito di vendetta, colla brutalità più sfrenata. – Sublimi virtù, e grandi delitti, uomini d’altissimi sensi, e scellerati profondi segnan quel secolo, come ne’ climi, ove la natura è più feconda, giganteggian gl’opposti del bello, e dell’orrido. – Con questa energia, con questa sovrabbondanza di forza, l’Italia avrebbe potuto fondare in quel secolo la sua indipendenza contro l’insulto straniero, [2] ove alcuno avesse posseduto l’arte difficile di volgere tutte quelle passioni ad un solo scopo. – Ma poiché nol tollerò la discordia ingenita nelle menti italiane, e attizzata ognor più dall’ambizione di chi nelle discordie altrui eleva la propria potenza, e dallo spirito invasore dello straniero, fu forza, che quelle torbide genti, a cui l’inerzia era morte, non dirette, non frenate, rivolgessero a danno della madre comune il bisogno d’oprare. – Né mancavano le cagioni di turbamenti. – I nomi di Guelfi, e di Ghibellini, nomi infausti ad ogni orecchio italiano, suonavano per quasi tutta questa terra infelice, perché le fazioni sopravvivono alle cause dalle quali trassero origine, e queste tanto più si suddividevano, quanto mancavan sovente d’una mira determinata. – Né la riforma tentata, e in parte compiuta da Frate Giovanni da Vicenza, né il reggimento repubblicano, mercè il quale Fiorenza vide risorte le lettere, e l’arti, impedirono che la discordia ripullulasse ognor più feroce nella terra Lombarda, e nalla Toscana. – Dall’un termine all’altro le spade italiane grondarono sangue italiano. – Gli stati di Napoli lacerati dalle lunghe lotte di Manfredi e dell’usurpatore Carlo d’Angiò fremevano sotto il sanguinoso giogo; la Sicilia vendicava col vespro il giovane Corradino; vendetta sterile, che poneala per qualche tempo sotto il dominio de’ re d’Aragona. – Nella Lombardia, i Della–Torre tentavan d’assidersi sulle rovine della tirannide d’Ezzelino. – Siena, Arezzo, Fiorenza combatteansi accanitamente. – La signora de’ mari provocava a guerra mortale Genova e Pisa. – E a danni di Pisa congiungevano l’armi Fiorenza, Lucca, Prato, Pistoia, Volterra ed altre nemiche giurate tra di loro prima che il furor Guelfo confondesse i loro interessi contro l’unica città Ghibellina della Toscana; ma guerre eran quelle non temperate da que’ precetti, che il pudore dettò alle nazioni e ch’esse approvarono col nome di dritto delle genti; guerre combattute colla ferocia dei tempi, e dallo scopo a cui tendevano, come quelle, che più spesso all’esterminio miravano, che a mutamenti di governo e di territorio. – Ogni occasione afferravasi, purché dannosa al nemico; ogni mezzo era buono, purché guidasse a vittoria. – Le tregue convertite in agguati, ogni maniera d’insidia, ogni genere di tradimento, tutto sembrava lecita parte di guerra. – E ad ognuno, il quale rammenti, nella sola guerra tra Genova e Pisa, il giuramento, con che s’astrinsero le città alleate de’ Genovesi, a struggere le mura Pisane, e disperderne i cittadini nelle terre vicine, la fuga del conte Ugolino nella battaglia della Meloria, – il modo, con cui si trattaron da’ Liguri undici mila prigionieri Pisani, frutto di questa vittoria, diecimila dei quali periron tra ceppi, fremerà l’anima in petto non discorde dalle nostre parole. Che se noi diamo un’occhiata all’intera situazione delle città, tal quadro ci s’appresenta, che noi non possiamo, se non gemere su questa nostra Italia, che diede sí miserando spettacolo al mondo. – Per ogni dove i cittadini correvano a’ tumulti, e alle risse, colla stessa ira, che con il furente lacera le proprie piaghe. – Per ogni dove gli oltraggi, le ferite, gli assassinj contaminavano le belle contrade, che sembravano create dalla natura ad una pace tranquilla ed eterna; ché agli uni poneva il sangue sul brando desio di prepotente dominio, agli altri timor di servaggio, e smania d’indipendenza forse tropp’ oltre spinta. – Le primarie famiglie nobili erano quasi tutte in aperta nimicizia tra loro; le minori parteggiavano per l’une o per le altre. – Quindi le città turbate sempre da’ privati dissidi che per lo più si decidevan coll’armi; ogni palazzo era roccia di guerra, ogni piazza potea divenir teatro di combattimenti. – Intanto gl’animi s’educavano al disprezzo di ogni ordine e d’ogni legge; la sommessione a’ tribunali da’ nobili si reputava viltà; ove un d’essi venisse tratto in giudizio, si tentava da coloro, che vincolo di parentela stringeva col reo, di trarlo a forza dalle mani de’ suoi custodi; ogni personale delitto faceasi per tal modo delitto di molti. – Le leggi erano: ma i governi erano impotenti a serbarne intatta l’esecuzione; onde, poiché nessuna cosa valeva a frenare l’intemperante audacia de’ nobili, il popolo stanco di sofferire in silenzio, levavasi in arme contro i perturbanti del suo riposo. – Siffatte popolari rivoluzioni non regolate dalla saggezza de’ Governanti, dirette da privati rancori, animate dalle memorie d’antichi oltraggi, attizzate ognor più da qualche adulatore di plebe, oltrepassavano quasi sempre lo scopo (del che abbiamo, per tacer d’altri, luminoso esempio nella rivoluzione, i il flagello della anarchia ogni cosa percotea; ed alla tirannide della nobiltà sottentrava l’ebbrietà della plebe, pur sempre tirannide. – Cosìs’avvicendava il disordine sotto forme diverse, finch’ una famiglia più avveduta dell’altre, invadesse la signoria.

Tali furono i tempi, ne’ quali Dante menò la dolorosa sua vita, tempi fecondi di gravi insegnamenti a chi dentro vi guardi con occhio filosofico, tempi, dallo studio dei quali non può venir che salute all’Italia. – Ora se v’ha taluno, al quale, dopo aver percorsa la storia di quest’età, non s’affacci sul volto, che un sorriso di sterile compassione, questi è da più, o da meno d’un uomo; ché le sciagure d’una nazione, la quale, piena di coraggio e di forze, le rivolge furiosamente contro i suoi figli, e prepara allo straniero la via, consumando miseramente se stessa, saranno sempre alto argomento di dolore, e di pianto a chi sente. – E diciamo di dolore, e di pianto, perché in ogni tempo i più s’appagano di gemere, e di tacere sovra infortunii, a cui non possono porre riparo. – Ma in tutti i secoli v’hanno delle anime di fuoco, che non possono acquetarsi all’universal corruttela, né starsi paghe d’uno steril silenzio. – Collocate dalla natura ad una immensa altezza comprendono in un’occhiata la situazione, e i bisogni de’ loro simili; straniere a’ vizi de’ loro contemporanei, tanto più vivamente ne sono affette; uno sdegno santo le invade; tormentate da un prepotente desío di far migliori i loro fratelli, mandano una voce possente e severa, come di Profeta, che gridi rampogna alle genti; voce, che il più delle volte vien male accolta da coloro, a’ quali è dirizzata, come da fanciulli la medicina. Ma chi dirà doversi anteporre la lusinga d’un plauso fugace alla riconoscenza più tarda de’ posteri? – A questa sola Dante mirava, e lo esprimeva in quei versi, che non dovrebbero obbliarsi mai da chi scrive –
E s’io al vero son timido amico,
Temo di perder vita tra coloro,
Che questo tempo chiameranno antico.
Parad., c. XVII
Forse egli gemeva della dura necessità, che astringevalo a denudare le piaghe della sua terra, forse ogni verso, in cui scolpiva una delle tante colpe, che la macchiavano, gli costava una lacrima, e gli dolea, che la sua voce dovesse esser molesta nel primo gusto; ma si confortava pensando, che avrebbe lasciato vital nutrimento, come fosse digesta, conforto veramente degno dell’alto animo suo; perché bella lode s’aspetta a chi tempra un inno alle glorie patrie, ma vieppiù bella a chi tenta ricondurre all’antica virtù i suoi degeneri concittadini, impresa difficile e perigliosa. – Utilmente lusingavano l’orecchio de’ giovani Greci le odi nazionali di Pindaro, quando la virtù dei vincitori nei ludi Elei splendeva incontaminata nel foro e nel campo; le stesse odi avrebbero suonato amaro scherno o adulazione codarda dopoché la libertà greca era spirata nelle pianure di Cheronea. Ond’è, che in un popolo guasto per molti vizi, o neghittoso per nullità di sentire, sarà santo sempre sovra ogni altro l’uffizio, che s’assume la satira, quando venga trattata non colle scurrilità di Settano, o coll’animosità cieca del Rosa, ma colla severità della virtù, con che Persio sentenzia gl’inetti dell’età sua, o colla onesta decenza del nostro Parini. – Però agli italiani del secolo decimoterzo, ad uomini educati all’ire dalle contese domestiche, ed estere, che sorridevano alla vendetta, come a delizia celeste, la fantasia de’ quali richiedea per essere scossa rappresentanze di dannati, e d’eterni tormenti (1), lo stil grave di Persio, e la dilicata ironia del Parini avrebber suonato inutili, come una voce isolata nel fremito della tempesta. – Per essi volevansi parole di fuoco, come l’indole loro, parole d’alto sdegno, d’iracondo dolore, di amaro scherno, tali insomma, che colpir valessero quelle menti indurate, perché l’aura, che offende la dilicata beltà, passa non sentita sulla cute incallita del villano, e agli scrittori è forza usar lo stile, che i tempi richieggono, ov’essi anelino all’utile, non ad una gloriuzza sterile e breve. – Tali parole proferí l’Alighieri, ispirandosi alle sciagure immense della sua patria, alle colpe e a’ vizi, che le eternavano, e all’anima sua bollente, mesta e severa per natura, allevata ne’ guai, di niuno amica, fuorché del vero. – Vestita la severità d’un giudice, flagellò le colpe e i colpevoli, ovunque fossero; non ebbe riguardo a fazioni, a partiti, ad antiche amicizie; non serví a timor di potenti, non s’innorpellò ad apparenze di libertà, ma denudò con imparziale giudizio l’anime ree, per vedere se il quadro della loro malvagità potesse ritrarre i suoi compatriotti dalle torte vie, in che s’erano messi, come i magistrati di Sparta, a chi s’avviliva coll’uscir da’ limiti della temperanza, presentavano l’abbietto spettacolo d’un Iloto briaco. – Or se questa è mente indegna di buon cittadino, noi confessiamo d’ignorare il valore di questo vocabolo; ma chi negasse una tal mente aver diretto l’intero poema, noi opporremo le parole stesse dell’Alighieri, il quale nella terza cantica si mostra così convinto della santità dell’opera sua, che illudendosi sulla riconoscenza de’ suoi coetanei, si conforta colla speranza, che il suo poema possa riaprirgli le porte dell’amata Fiorenza (2). – Questa testimonianza d’una coscienza immacolata non ci par cosa di poco peso nella Quistione, perché un tal voto, una tale speranza non s’affacciano ad un uomo, il quale arde d’ira contro la patria, e contro d’essa inveisce scrivendo. – E Dante esprimeva questa sua illusione nel canto vigesimo quinto del Paradiso, verso il termine dell’età sua; quando avea già ingoiato tutto il calice dell’esilio, quando ei dovea essere inacerbito da tutte le miserie, che accompagnano l’uomo bisognoso e d’animo fiero.

Del resto noi non annoieremo chi legge collo schierare dinanzi tutti que’ tratti del divino poema, che pongono in evidenza la piena d’affetto patrio, di che avvampava l’esule illustre, e sarebbe opera inutile, dopo quanto ne sminuzzò il Perticari; ma diremo, che quand’anche non esistesse il sublime canto, in cui parla Sordello, né alcun altro di simil fatta, a chi s’inviscera nella mente d’uno scrittore, gli stessi tratti, che s’allogano a dimostrare la vendetta dell’Alighieri, verrebbero a far piena discolpa dell’animo suo. – Egli inveisce agramente contro le colpe, onde l’itala terra era lorda, ma non è scoppio di furore irragionevole, o d’offeso orgoglio; è suono d’alta mestizia, come d’uomo, che scriva piangendo; è il genio della libertà patria che geme sulla sua statua rovesciata, e freme contro coloro, che la travolser nel fango. – Nei versi, che più infieriscono, tu senti un pianto, che gronda sulla dura necessità, che i fati della patria gl’impongono; tu discerni l’affetto d’un padre, il quale si sforza di vestire una severità, che non è nel suo cuore, per soffocare una passione crescente nel petto del figlio, che può trascinarlo in rovina. Le voci – patria, natio loco, mia terra – appaiono tratto tratto per farti risovvenire, che il poeta ama Fiorenza collo stesso ardore, con cui flagella i lupi, che le dan guerra. – Sovente egli cerca un tristo compenso nei giorni, che furono, e riposando il suo sguardo stanco sull’antica situazione della sua città, rammenta con orgoglio sublime ciò che fu un tempo, ritraendoci con tinte d’inimitabil dolcezza, la pace, la serenità, la virtù semplice, e queta, che faceano di quella terra un soggiorno celeste, primaché il puzzo del Villano d’Aguglione, e di quel da Signa contaminasse quella purità di costumi.

Acerbissime dunque furono, nol neghiamo, le querele dell’Alighieri; ma tali quali esigevano i tempi, i costumi, le circostanze dell’età sua; tali specialmente, quali l’affetto patrio ben concepito impose a tutti gli uomini, che per genio, e virtù si sollevarono al di sopra degli altri (3). Il Perticari pose innanzi agli accusatori di Dante tratti non meno aspri e pungenti del Boccaccio, del Villani: memorò le parole severe, che Demostene, Aristofane, Tullio, Platone, Seneca, Tacito, ed altri mille scagliarono contro i peccati delle loro terre; e si lagnò della ingratitudine dei posteri, che della stessa cosa gli uni laudavano, mentre accusavano l’altro; perloché noi non ci tratterremo sopra questo argomento; e rimembreremo soltanto, come il Petrarca, di cui Perticari non fece motto, trascorse oltre lo sdegno dell’Alighieri, ogniqualvolta dall’oggetto eterno dell’amor suo torse il guardo all’Italia. – I tre sonetti, nei quali impreca ogni castigo a Roma, superano in ira quanto fu detto mai da Dante, o da alcun altro poeta. – Nella canzone

Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno

egli mostra altamente il suo disprezzo pei tanti tirannetti, che laceravano la patria: nell’altra, ch’egli forse inviò a Stefano Colonna, e che incomincia:

Spirto gentil che quelle membra reggi

chiama l’Italia tutta vecchia, lenta, oziosa; e brama, che alcuno ponga mano nella sua venerabile chioma, e nelle sue trecce sparte. – E il Petrarca viveva in tempi di minor ferocia, benché d’egual corruzione; non avea certamente oltraggio da vendicare: era dotato d’animo sovra ogn’altro dolcissimo, nudrito di sospiri d’amore, educato alla pieghevolezza dalle corti, ove ei, troppo forse per l’onor suo, soggiornava.

Un’ultima prova intanto del vero, che per noi si sostiene, trarremo dagli altri scritti dell’Alighieri; e poiché le idee d’un autore debbono, come le leggi, interpretarsi l’una coll’altra, un guardo solo, che noi gettiamo sopra tuttociò, ch’egli andò di mano in mano vergando, ci convincerà ognor più dell’animo suo. – In tutti i suoi scritti, di qualunque genere essi siano, traluce sempre sotto forme diverse l’amore immenso, ch’ei portava alla patria; amore, che non nudrivasi di pregiudizietti, o di rancori municipali, ma di pensieri luminosi d’unione, e di pace; che non ristringevasi ad un cerchio di mura, ma sibbene a tutto il bel paese, dove il sí suona, perché la patria d’un italiano non è Roma, Firenze, o Milano, ma tutta l’Italia. Con tale mente egli scrisse il libro della Monarchia, in cui se tutte le idee non son tali da dover essere universalmente abbracciate, tutte almeno appaion dettate da un ottimo spirito, quale ammettevano i tempi; in questo egli mirò a congiungere in un sol corpo l’Italia piena di divisioni, e sottrarla al servaggio, che allora minacciavala più che mai. – E se il latino linguaggio, le forme scolastiche, che vi campeggiano, e la scarsezza delle edizioni copriron quest’opera quasi d’obblío, non è men vero, che ei vi gittò que’ semi d’indipendenza e di libertà, ch’ei profuse poscia nel suo poema, e che fruttificarono largamente nei secoli posteriori. – Con tal mente fu da lui concepito il trattato del volgare Eloquio, che concitò in questi ultimi tempi lo spirito irritabile de’ letterati italiani a controversie più argute forse, che utili. – In questo egli s’erge luminosamente al di sopra di quella torma di grammatici, che fanno intisichire la lingua per volerla costringere nelle fasce della sua infanzia; dimostra la vera favella italiana non esser Tosca, Lombarda, o d’altra Provincia; ma una sola, e di tutta la terra

Ch’Appennin parte, e ’l mar circonda, e l’alpe.

Insegnando a’ suoi coetanei, come questo idioma illustre, fondamentale non aveva nessun limite, ma si facea bello di ciò, ch’era migliore in ogni dialetto, egli cercava di soffocare ogni contesa di primato in fatto di lingua nelle varie provincie, ed insinuava l’alta massima, che nella comunione reciproca delle idee sta gran parte de’ progressi dello spirito umano. – Siffatti pensieri ebbero da lui più ampio sviluppo nel suo Convivio, dov’egli si pronunzia con entusiasmo campione della favella italiana volgare, e predice a questa verginella modesta, ch’egli educava a più nobili fati, glorie, e trionfi sull’idioma latino, ch’era ormai sole al tramonto. – Egli si mostra, come fu notato da uno scrittore, ben più altero della nobiltà, e dell’efficacia della sua lingua, che del merito dei proprii versi. – Sembra ch’egli col pascersi di quest’avvenire cerchi stornare la mestizia, che gl’infortunj politici d’Italia, e di se stesso gli procacciavano; perch’egli scriveva quest’opera, quando avea già sperimentato, come l’arco dell’esilio saetti acuto lo strale, quando la sua vita dechinava al fine. – Eppure l’affetto di patria ardeva sempre vivissimo nel cuor suo, come ci fanno fede que’ tratti commoventissimi, ne’ quali piange la sorte, che lo gittò fuori del dolce seno della bellissima, e famosissima figlia di Roma, Fiorenza. – Quest’affetto di patria mai nol lasciò, accompagnandolo nelle sue peregrinazioni per l’Italia; non formò pensiero, non mise sospiro, che non lo spirasse; e per tacere della bella canzone

Tre donne intorno al cor mi son venute

e della bellissima

O patria degna di triunfal fama,

perfino quand’egli scrive ciò, che amore gli detta, non

pensa tanto alla sua Beatrice, che obblii la città, dove nacque; cosìnella canzone, che incomincia

Amor, da che convien pur ch’io mi doglia

il lamento, ch’ei mette per la crudeltà della donna sua, gli è cagione di rimembrare la crudeltà di Fiorenza, che fuor di sé lo serrava,

Vota d’amor, e nuda di pietate;

e nell’altra

La dispietata mente che pur mira

tutta d’amor, ricorda il dolce paese, ch’ha lasciato.

Ma ove pure alcuni squarci del poema potessero lasciare un senso d’esitazione nell’animo, noi abbiamo una testimonianza irrecusabile, che non lascia alcun dubbio sulla mente, che animò la sua cantica. – Questa è la sua vita. Ciò, che in essa più monta è oramai conosciuto abbastanza, benché l’Italia, malgrado un diluvio di commenti, note, memorie, e saggi, non possegga finora una vita degna di questo sommo, e il voto del nostro buon Pelli rimanga pur sempre inesaudito. – Ond’è, che noi moveremo intorno ad essa parole brevissime.

Non difficil cosa sarebbe, crediamo, il dimostrare, come il mutamento di parte, di che lo accusaron taluni, fosse figlio non d’una mente volubile, o della necessità dell’esilio, bensí d’un affinato discernimento, e d’una imparzialità a tutta prova, dappoiché la Guelfa fazione, che potea parere a prima vista animata da uno spirito più italiano, e che egli seguí, finché il bollore giovanile gli fe’ legge di seguir la parte, in che tutti i suoi s’eran messi, appunto in quel torno, guasta da’ nuovi partiti, piegò dal proposito primo, e mostrò evidentemente di servire a privati affetti, e agli interessi di chi la moveva più, che a quei della patria. – Ma questa, ed altre quistioni di simil fatta non son tali, che possano trovar luogo ne’ brevi limiti di un articolo di giornale, e spetterebbero a chi s’assumesse di dare all’Italia una buona vita dell’Alighieri. – Ben diremo che siccom’egli siede, e siederà gran pezza primo fra i poeti, che durano eterni, cosìla sua vita può presentarsi con tutta fidanza a modello di coloro, che san cos’è patria, e com’essa vuol esser servita. – Un’esistenza d’undici lustri non fu per lui, che un solo sospiro, e questo fu per la Italia. – Non ebbe riposo giammai nella lotta, ch’egli intraprese animosamente contro i suoi oppressori, contro i pregiudizi, che la dominavano, contro l’ignoranza, che sovr’essa pesava. – Logorò il fiore dell’età sua in sagrifizi continui per la terra, che lo rinnegò. – Sembra impossibile, che dopo aver percorse le circostanze della sua vita, alcuno abbia potuto muovere sospetto sullo spirito, che lo animava. – L’uomo, che combatté valorosamente nella giornata di Campaldino (1289) contro la gente di Arezzo, che guerreggiò un anno dopo contro i Pisani; – l’uomo, che Firenze scelse all’età d’anni trentacinque ad uno de’ tre reggitori della repubblica – che seppe in tempi difficilissimi ottenersi tanta fama di senno, e d’integrità, che, come sul suo capo posassero le sorti delle cose patrie, i due priori, suoi compagni, a lui solo affidavano il maneggio degli affari più perigliosi; – l’uomo che nelle gare de’ Bianchi, e dei Neri, spogliatosi d’ogni privata affezione, pronunziò la sentenza d’esilio contro ambe le parti (1301), monumento di severa imparzialità; – che volò a’ piedi di Bonifazio per vedere di smuoverlo da’ consigli, che ponevano Fiorenza sotto la tirannide di Carlo di Valois; e che più tardi, quando più gemeva sotto il pondo delle ingiurie della fortuna, ritrovò tanta forza d’animo da condannarsi ad un bando perpetuo, anziché avvilir sé, e la sua patria colla vergogna d’una sommessione disonorevole (4). – Quest’uomo, diciamo, presenta un tal quadro, che sfida il mordere dell’invidia. – Poiché fu bandito, errò lunga pezza per tutta l’Italia, vivendo di memorie, grande del suo dolore, forte di quell’ingegno, che niuno può torre. – L’infortunio non l’avvilí; la miseria, che, a detta di Omero, dimezza l’anima dello schiavo, non gli tolse pur una dramma del suo generoso sentire; ma stette contro i colpi della fortuna, com’uomo che duolsi più dell’altrui, che del proprio danno; e bench’ei fosse astretto a mendicare dai signori italiani un tozzo di quel pane, che sa di sale, non piegò dinanzi al potere, non prostituí il suo genio, e la musa a speranze di principesca mercede. – Com’ei vide tronca ogni via per soccorrere col senno, e col braccio alla patria inferma, diè mano allo scrivere, e legò in un poema eterno a’ suoi posteri l’amore il più ardente della indipendenza, e l’odio il più fiero contro i vizi, che trassero a mal partito la sua Fiorenza. – Compié il suo mortale pellegrinaggio in Ravenna; ivi riposano ancora le sue ossa, segnate da un monumento indegno di lui, lontane dalla terra, che tanto amò, e dove l’inerzia di Leon X non permise che a lui s’ergesse una tomba da Michelangelo, erede del suo genio, e l’unico forse degno di pagargli il tributo, che l’Italia deve alla sua memoria.

O Italiani! Studiate Dante; non su’commenti, non sulle glosse; ma nella storia del secolo, in ch’egli visse, nella sua vita, e nelle sue opere. – Ma badate! V’ha più che il verso nel suo poema; e per questo non vi fidate ai grammatici, e agli interpreti: essi sono come la gente, che dissecca cadaveri; voi vedete le ossa, i muscoli, le vene che formavano il corpo; ma dov’è la scintilla, che l’animò? – Ricordatevi, che Socrate disse il migliore interprete d’Omero essere l’ingegno più altamente spirato dalle muse. Avete voi un’anima di fuoco? – Avete mai provato il sublime fremito, che destano l’antiche memorie? – Avete mai abbracciate le tombe de’pochi grandi, che spesero per la patria vita, e intelletto? – Avete voi versata mai una lacrima sulla bella contrada, che gli odi, i partiti, le dissensioni, e la prepotenza straniera ridussero al nulla? – Se tali siete, studiate Dante; da quelle pagine profondamente energiche, succhiate quello sdegno magnanimo, onde l’esule illustre nudriva l’anima; ché l’ira contro i vizi e le corruttele è virtù. – Apprendete da lui, come si serva alla terra natía, finché l’oprare non è vietato; come si viva nella sciagura. – La forza delle cose molto ci ha tolto; ma nessuno può torci i nostri grandi; né l’invidia, né l’indifferenza della servitù poté struggerne i nomi, ed i monumenti; ed ora stanno come quelle colonne, che s’affacciano al pellegrino nelle mute solitudini dell’Egitto, e gli additano, che in que’ luoghi fu possente città. – Circondiamo d’affetto figliale la loro memoria. – Ogni fronda del lauro immortale, che i secoli posarono su’ loro sepolcri, è pegno di gloria per noi; né potete appressare a quella corona una mano sacrilega, che non facciate piaga profonda nell’onore della terra, che vi diè vita. – O Italiani! – non obbliate giammai, che il primo passo a produrre uomini grandi sta nello onorare i già spenti.



NOTE, COMMENTI E APPARATI

(Fra parentesi tonde le note originali di Mazzini,
quadre quelle del Blogger.

Si rinvia invece all’Edizione Nazionale per le note e le introduzioni dei Curatori.
Le illustrazioni al testo sono attinte liberamente dalla Rete.
Verranno soppresse in caso di contestazione degli aventi diritto
)

(1) Giovanni VILLANI, Ist. Fior., lib. III, n. 70.

(2)
Se mai continga che il poema sacro,
Al quale ha posto mano e cielo, e terra,
Sí che m’ha fatto per più anni macro,
Vinca la crudeltà che fuor mi serra
Del bello ovile ov’io dormi’ agnello
Nimico ai lupi che gli danno guerra; ecc.
Parad., c XXV.

(3) Se vero è, come risulta dalla vita di Dante del Boccaccio, da due novelle di Franco Sacchetti, e da altri, che i primi sette canti almeno fossero di già composti, e diffusi in Firenze, prima ch’ei ne fosse cacciato, ognun vede dal tenore di quei canti, e dallo stile, che in essi s’adopra, non doversi ascrivere all’ira della sciagura, bensí ad alto, e fermissimo proposito dello Scrittore, l’aspre parole, e i rimproveri, ch’egli proferisce nel suo poema.

(4) Noi non esitiamo a porre tra i fatti più degni di lode dello Alighieri questo suo rifiuto d’entrare in Fiorenza, benché alcuno abbia voluto inferirne rancore, e superbia. – A chiunque rammemori tutte le vie ch’ei tentò per ricuperare la patria, e la lettera, ch’egli scrisse al suo popolo, mentovata da Leonardo Bruni nella sua Vita di Dante, non può venir dubbio sul desiderio, ch’egli nutriva di rimpatriare. – E dove si considerino le turpissime condizioni, che a lui s’offerivano, memorate dal Boccaccio nella vita, ch’egli lasciò di lui, e la lettera intera di Dante, ch’egli inviò a chi gli faceva tali proposte, non riman luogo, che ad altissima ammirazione; perché l’uomo deve prima di tutto rispettare la sua patria in se stesso, e la qualità di cittadino allora veramente si perde, quando ottiensi colla viltà, o coll’infamia.

* * *

[1] Non abbiamo ancora ancora trovato il riferimento esatto del giovane Mazzini, ma in compenso abbiamo trovato in rete la Collezione della famosa “Antologia” di Viessieux, uscita a Firenze nel 1821 e continuata a cadenze trimestrali per i decenni successivi. La rivista nasceva dopo analoghe esperienze in Francia, in Germania, in Inghilterra. Si ispira particolarmente alle riviste francesi, da cui traduce estratti. Grazie alla comodità offerta da Google Libri, che ci risparmia pesanti sedute in biblioteca pubbliche, scorreremo rapidamente l’intera Collezione digitalizzata per ricavare una diretta impressione dello spirito dell’epoca, da noi distante due secoli. Ci soffermeremo su quanto ci parrà interessante. Ma intanto possiamo desumere che questa rivista, l’Antologia, contribuì alla formazione intellettuale e politica del giovane Mazzini.

[2] Ecco qui una tipica insofferenza verso lo “straniero” in quanto dominatore che viene da fuori e porta oppressione. L’edizione nazionale degli scritti di Mazzini rubrica come “letterari” questo ed altri scritti. A nostro avviso, Mazzini resta sempre in ogni sua riga, anche quando si interessa di letteratura, sempre uno scrittore politico che trasporta le preoccupazioni della sua epoca e le sue proprie idealità ad ogni oggetto che si trova a trattare. Questo gli funge solo da pretesto. Non dimenticando la nostra ricerca sul sionismo, già da queste primissime righe del giovane Mazzini ci sembra infondato un qualsiasi accostamento delle idealità giovanili del Mazzini ad un’ideologia che sulla base di una pura superstizione religiosa invade la “patria” altrui, quella dei palestinesi che in Palestina vivevano da sempre, non solo per scacciarli dai loro villaggi ancestrali, ma facendone strage e genocidio. Come ciò potesse avere l’avallo del Mazzini, è ciò che non ci stancheremo di verificare.

sabato, maggio 09, 2009

Il Pensiero politico di Giuseppe Mazzini. Homepage

Versione 1.0
Status: 9.5.09

Giuseppe Mazzini è un nome noto a chiunque in Italia abbia frequentato le scuole dell’obbligo. Il suo nome è associato al Risorgimento italiano, anzi è il Risorgimento italiano. Come sempre, tutto ciò che è scolastico viene penalizzato dalla costrizione e dalla mancanza di spontaneità ed autonomo interesse dello scolaro, i cui curricula sono spesso pesanti bardature che cadono quando viene meno la pressione pedagogica. L’idea di Risorgimento, di unificazione nazionale, che ci eravamo tutti formata aveva perlomeno chiare coordinate storiche e mentali: l’insieme di stati autonomi in cui era divisa la geografia politica della Penisola si uniscono per dare vita ad un unico grande stato che era l’Itale e l’Italia di tutti gli italiani, dal nord al sud. Non fu dunque una conquista coloniale di uno Stato a danno di altri stati, ma un convinto processo unitario, dove nessuna parte d’Italia restava mortificata. Dunque l’idea di Risorgimento era in primo luogo indigena, autoctona, costituente. Niente a che vedere con una qualsiasi idea o concetto di conquista, di oppressione, di sterminio, di pulizia etnica. Eppure, autorevolemente ed istitzionalmente, ci capita di vedere associato il nome di Mazzini e l’idea di Risorgimento ad un mostro politico che porta il nome di sionismo. Nella parte che abbiamo finora esplorato dell’Opera omnia di Mazzini trova conferma il nostro giudizio di assoluta arbitrarietà ed infondatezza dell’operazione che gruppi politici certamente illiberali pensano di poter impunemente condurre. L’opera di Mazzini consta di più di 100 volumi finora editi e non è certo agevole leggerli tutti. Avevano pensato di pubblicarli in rete con un nostro commento. Ma ci rendiamo conto che è un lavoro insostenibile per una sola persona. Optiamo per un progetto più limitato, all’interno di questo blog intitolato “Spigolature storiche”, dove l’interesse per una rivisitazione dell’opera di Giuseppe Mazzini è si occasionato da un intento polemico, ma non ne è condizionato e soprattutto ci consente di cogliere una più ampia opportunità di rivisitare, non più scolasticamente, l’intero Risorgimento italiano e il processo di unificazione politica dell’Italia dal primo impatto con la Rivoluzione francese fino ai giorni nostri. L’edizione a cui facciamo riferimento ed a cui attingiamo è l’Edizione nazionale degli “Scritti editi ed inediti”, iniziata nel 1906 e dopo un secolo giunta al 100° volume ed oltre. Supponiamo che per i testi di Mazzini non ci sia nessun copyright e siano testi di pubblico dominio. Ad ogni buon conto e per cautela soppriremo tutte le note e i commenti dei curatori dell’Edizione nazionali, sostituendoli, se ci parrà in caso con nostri propri commenti. Procederemo secondo un piano e questa sarà la pagina di unione dei numerosi post previsti. Post distinti ed autonomi saranno dedicati ai personaggi che certamente verranno fuori numerosi dalla diretta lettura del testo mazziniano.

Edizione Nazionale
degli Scritti
di
GIUSEPPE MAZZINI

Volume I
(Letteratura - Vol. I)
Imola, 1906

I.
Dell’amor patrio di Dante.
(1826 o 1827)

II.
La Fidanzata Ligure, romanzo di Carlo Varese.
(1828)

III.
Del romanzo in generale ed anche dei Promessi Sposi.

IV.
Poesia contemporanea.

V.

VI.

VII.

VIII.

IX.

X.

XI.

XII.

XIII.

XIV.

XV.

XVI.

XVII.

XVIII.

XIX.

XX.

XXI.

XXII.

XXIII.

XXIV.

XXV.

XXVI.