mercoledì, maggio 13, 2009

Carlo Varese: Sibilla Odaleta. – Capitolo Primo.

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SIBILLA ODALETA

Capitolo Primo.

..... Ecco opportuna
Già la stagion che a guerreggiar s’aspetta
Perché dunque frappor dimora alcuna
A liberar Gerusalem soggetta?
Tu i Prìncipi a consiglio omai raguna,
Tu al fin dell’opra i neghittosi affretta.

Tasso.

Nel 1493 esercitava Lodovico Sforza detto il Moro l’uffizio di tutore del di lui nipote Giovanni Galeazzo duca di Milano, maggiore già di vent’anni, ma povero d’ingegno e di salute. Teneva egli da molto tempo le redini del governo, e, dal titolo di duca in fuori, dominava coll’ampiezza del potere di un principe assoluto, poiché in propria podestà avea ridotte le fortezze, le genti d’armi ed il tesoro dello Stato. Ma ambizioso oltre ogni credere, non poteva dormir tranquillo per un andamento di cose affatto precario; e perciò pensava seriamente ai modi di liberarsi del nipote, non perché lo tenesse capace di riprendersi da sé il supremo comando, ma perché Isabella d’Aragona, di lui moglie, donna di spirito virile, non cessava di stimolare il padre suo, Ferdinando re di Napoli, a non tollerare più a lungo tanta vergogna; e caldamente lo pregava perché prendesse in considerazione il pericolo delle lor vite continuamente esposte con quelle dei loro figliuoli alle insidie ed alla mala fede di Lodovico. Per altra parte egli sapeva essere il suo nome odioso al popolo, e somma la compassione che ciascuno avea per l’infelice Giovanni Galeazzo legittimo signore di Milano: ond’è che per giungere a’ suoi fini, sparse dapprima a piene mani semi di discordia tra il Re di Napoli ed Alessandro Sesto (Rodrigo Borgia, il quale avea l’anno addietro immeritamente carpita la tiara), affinché, suscitando in costui a Ferdinando un gagliardo nemico, a questo venisse per esso diminuita e la possanza e la facoltà di sostenere i diritti del genero. Alcuni fatti che in altre circostanze sarebbero stati considerati di nessun conto, gli servirono di pretesto; e presentati poi con maligna disposizione, inacerbirono talmente l’animo del superbo Pontefice, che il di lui rancore non aspettava che il destro per umiliare l’inquieto suo vicino.

Questi dissapori però non sembravano agli occhi dell’accorto Lodovico di natura inconciliabile, sia perché Alessandro era di suo carattere instabile, sia perché Alfonso, figlio primogenito di Ferdinando, pareva inclinasse a stringere legami di matrimonio tra Sancia sua figliuola naturale, e Gioffredo figliuolo del Papa.

Era anche l’anno prima morto in Firenze Lorenzo de’ Medici: luttuosa perdita non solo per quella Repubblica, ma per tutta Italia, poiché alla tranquillità di tutti maravigliosamente contribuiva l’ingegno, la prudenza e la riputazione di quel principe. Egli era il solo che sapesse moderare e metter freno all’ambizione di Ferdinando e di Lodovico, che per esser di potenza quasi eguale, e per i riferiti motivi, vivevano in continui dispiaceri e sospetti.

Era a lui succeduto Pietro, di gran lunga inferiore al padre; e questi, per consiglio di Virginio Orsini suo parente, si restrinse talmente con Ferdinando, che Lodovico Sforza ebbe giusta ragione di temere che ogni qualvolta volessero gli Aragonesi prorompere nel Ducato di Milano, o negli Stati Pontificii, avrebbero avuto a sostegno le armi della Repubblica di Firenze. Egli rivolse perciò l’animo a ricercare più efficaci rimedii al male che lo minacciava.

Regnava in Francia Carlo VIII, figlio di Luigi XI. I suoi predecessori aveano più volte con diversa fortuna assalito il reame di Napoli, conceduto in feudo, per ragioni che sarebbe superfluo addurre, da Urbano IV pontefice romano, fino dal 1274 , a Carlo conte di Provenza e d’Angiò, fratello di San Luigi. Tale concessione, benché fosse chimerica, poiché in realtà il Regno di Napoli non fu mai feudo di Roma, fu sostenuta con varia fortuna dai sovrani di Francia, e passò per ultimo in retaggio a Carlo VIlI.

Questo principe, naturalmente guerriero, ambiva di acquistare colle armi quel regno come giustamente appartenente a sé; e non l’ignorava Lodovico Sforza. Giudicò quindi quest’ ultimo esser unico mezzo di umiliar Ferdinando ed assicurarsi il dominio di Milano, chiamare in Italia le armi di quel giovane Monarca, offerendogli potente aiuto di soldati e di denaro.

Tutto diretto all’esecuzione di questo disegno, del quale non calcolò però con quella saviezza e prudenza che pretendeva possedere, le possibili conseguenze, apertamente spedì a Carlo, benché con altri colori cercasse di velarne le cagioni vere, ambasciatore Carlo da Barbiano, conte di Belgioioso. Da sagace politico, e colla scorta delle suggestioni di Lodovico, questi presentò a quel monarca sotto si bell’aspetto quella conquista, ne mostrò con tanta chiarezza la facilità, ne nascose con tant’arte i pericoli, seppe esagerar così bene la gloria che ne tornerebbe alla Francia, dar peso alla giustizia della causa, e pregio ai frutti della vittoria, ed insieme allontanare ogni sospetto d’interesse privato nell’animo di Lodovico, che Carlo, giovane di ventidue anni, per natura poco intelligente delle azioni umane, trasportato da ardente sete di dominare e da appetito di gloria, decise di passar l’Alpi, e, novello Annibale, venirne alla conquista d’ Italia.

Non mancarono però molti Signori e Grandi di Francia, i quali accolsero con diffidenza sì magnifiche prospettive. Fra questi, Giacomo Gravilla, grand’ammiraglio, uomo che godeva fama di autorevole saviezza, schierò dinanzi al Re ed al Parlamento ragioni tali che bilanciarono quelle dell’Ambasciatore italiano.

Mostrò da una parte le difficoltà di una guerra in paese lontano, la fama ed il valore di Alfonso duca di Calabria, le astuzie e gli artifizii italiani, e la mala fede di Lodovico; dall’altra, richiamò alla memoria la mancanza di denari, le controversie coi Re vicini, che importava in caso di guerra comporre con sagrifizii dannosi e poco onorevoli. Ma né questi né altri simili riflessi valsero a distogliere l’animo di quell’imprudente monarca, poiché fortemente lo instigavano, per motivi che diremo poi, Stefano di Vers linguadochese, e Guglielmo Brissonetto, prima generale di Francia, poi vescovo di San-Malò, non che varii Principi e molti Baroni banditi dal Regno di Napoli, e ritirati in Francia.

Prima di oltrepassare le barriere che la Natura pose tra la Francia e l’Italia, i diversi Potentati di questa nostra bella penisola furono segretamente esplorati per calcolare al giusto su quali soccorsi si poteva contare, e quali ostacoli si sarebbero incontrati.

Alessandro VI, ansioso di vendicarsi di Ferdinando, e di vederlo umiliato ed anche detronizzato, aderiva alle istanze di Lodovico, ed incoraggiava la venuta di Carlo in Italia.

I Veneziani e i Sanesi, ai quali non conveniva troppo che le fiorite sponde di Partenope divenissero sede di un monarca straniero, richiesti da Filippo di Comines, signore di Argentone, se, avversi al Re di Francia, si sarebbero opposti, o se favorevoli lo avessero assecondato, si sbrigarono alla meglio con inconcludente risposta.

I Fiorentini, benché minacciati di essere privati del commercio con la Francia se avessero ricusato di prestarle armati e denaro, non vollero abbandonare gli Aragonesi, poiché Pietro de’ Medici, misurando le cose più con la volontà che con la prudenza, sperava che la spedizione d’Italia avesse a terminare in vani rumori: e persistette in voler correre con Ferdinando la medesima fortuna.

Ma Carlo aveva in suo cuore fortemente deciso di condurre a termine l’ideata invasione; laonde, questi ostacoli poco o nulla calcolati, messi a fine i preparativi nel corso dell’anno 1493, preceduto dalla fama del valor francese scese nell’anno successivo in Italia alla testa di formidabile esercito. Lo seguirono tutti i Signori ed i Capitani del Regno. Il nerbo delle sue truppe si componeva di Guasconi, gente gagliarda, armata e disciplinata alla maniera degli Svizzeri, di varii battaglioni di questi guerrieri montanari, che allora più che mai aveano acquistato riputazione di forti e coraggiosi per le recenti vittorie di Granson e di Morat, riportate nel 1476 sulle falangi del terribile duca di Borgogna Carlo il Temerario, e di compagnie di gendarmi a cavallo, dove per la prima volta servivano i gentiluomini della più distinta condizione, i quali avevano sino allora temuto di macchiare la nobiltà loro col farsi ascrivere in compagnie assoldate, ma che liberatisi da quel pregiudizio si distinsero dappoi con ogni sorta di virtù militare.

Intanto scorrevano l’Italia, già tremante sul destino che la minacciava, uomini che o creduli od impostori, facevano professione di avere, o per scienza, o per inspirazione divina, conoscenza delle cose future, e le pronosticavano con impudente sfacciataggine. Costoro, o sia che dai Francesi o da Lodovico fossero assoldati, o sia che la paura ingrandisse realmente ai loro occhi i pericoli, andavano predicando esser giunto per l’Italia l’estremo fato; e parlare il Cielo in mille modi con accidenti strani, con orrende apparizioni, quali da molti secoli non si erano più nel mondo osservate. Affermavano ch’ eransi veduti nella Puglia tre Soli (di notte!…) e in un cielo nubiloso: che orribili fulgori e tuoni aumentavano il terrore di quel fenomeno; che nel territorio di Arezzo era per molti giorni passata visibilmente una non numerabile quantità di uomini armati sopra grossissimi cavalli, ed accompagnati da terribile strepito di trombe e di tamburi; che in molti luoghi aveano sudato le immagini e le statue sacre; ch’ erano accadute in somma in diverse parti d’Italia infinite cose tutte fuori dell’ordine della natura. Tali stranezze passavano di bocca in bocca, e venivano così sempre più sfigurate ed ingrandite da immaginazioni percosse dal terrore e dalla superstizione. Consolava soltanto taluni il non essersi ancora osservata quella cometa che gli antichi riputavano certissima messaggiera della mutazione degli Stati e dei Regni.

Erano in questa disposizione gli spiriti e le cose d’Italia quando Carlo mosse di Francia; ma, nel frattempo scorso dalla partenza di lui all’arrivo suo in Toscana, si cambiarono in parte le propizie circostanze che al valor francese agevolar doveano l’ambita conquista. Giovanni Galeazzo Sforza, ostacolo principale all’ambizione di Lodovico, che da lungo tempo giaceva infermo nel castello di Pavia, venne a morte, e fu opinione di quei tempi che un lento veleno datogli dallo zio ne fosse cagione: per tale avvenimento, al quale tenne immediatamente dietro l’elezione di Lodovico a duca di Milano, cangiaronsi le disposizioni ostili di questo principe; aggiungasi ch’egli fu pure inacerbito dall’essere stato costretto a dare in ostaggio di sua fede quel castello a Carlo, ed a somministrargli dugentomila ducati: perciò, forte gli increbbe d’aver egli stesso aperte le porte d’Italia alle armate di oltremonte, e dall’esperienza instrutto, pensava che difficil cosa sarebbe stato il frenare in progresso l’ambizione di un monarca vincitore, che in sua mente ruminava non solo la conquista d’Italia, ma ben anco quella della superba Costantinopoli.

Ferdinando, a cui la minacciata invasione di Francia e la difficoltà di opporvisi gravissimi affanni cagionarono, finì in pochi giorni di vivere. Alfonso, erede del trono, si affrettò di ammansare l’ire di Alessandro: quindi sparirono anche le nuvole di dissensioni tra il Pontefice romano e quel principe; ed a suggellare la pace furono conchiuse le ideate nozze, delle quali noi demmo più sopra un cenno, tra Sancia e Gioffredo. Tali e sì importanti cangiamenti in pochi mesi avvenuti furono di non piccol pensiero a Carlo; e se l’impresa non fosse stata cominciata, se la vergogna di dovervi pubblicamente rinunziare non l’avessero ritenuto, avrebbe senza dubbio fatto luogo a più prudenti consigli.

Quest’incagli furono però resi meno notabili dai seguenti fatti. Un’armata sotto il comando di D. Federico, fratello del Re, era partita da Napoli coll’idea di presentarsi nelle acque di Genova, dove speravasi, per segrete intelligenze coi fuorusciti di quella città, in una sollevazione che avrebbe dato in loro potere quel porto prima che il Re di Francia, il cui pensiero era di attaccar Napoli per terra e per mare contemporaneamente, avesse potuto radunarvi le galere di Marsiglia. L’armata del principe Federico, a quanto raccontano gli Storici, era forte di trentacinque galee sottili, diciotto navi e varii legni minori, muniti di buona artiglieria e montati da tremila fanti da sbarco. Erano molti anni che il Mar Tirreno non aveva veduto una flottiglia così ben provveduta, e meglio armata, onde a ragione speravasi un felice successo di questa intrapresa. Ma troppo tardi si era mossa da Napoli, poiché i Francesi avevano avuto il tempo di antivenire i loro disegni; ed il Bali di Digione, con duemila Svizzeri assoldati dal Re di Francia, erasi impossessato di Genova, ed avea messe in ordine molte navi e galee, le quali, unite a quelle di Marsiglia, potevano opporre validissima difesa; quindi quella impresa, facilissima ove fosse stata tentata un mese addietro, era divenuta ardua e laboriosa: ed il principe Federico dopo alcuni scontri di poco momento nella riviera di Levante, perduta omai la speranza d’impadronirsi di Genova, e non volendo avventurarsi ad una lotta di esito incerto perché da essa poteva dipendere la sorte del Regno, rimandò le sue navi a Napoli, e ritirossi colle galee sottili nel porto di Livorno nel momento appunto in cui Carlo di Francia mettea piede nella Toscana. Questa specie di ritirata, quantunque inconcludente perché rimaneva tuttora intatta la marineria aragonese, imbaldanzì il Monarca ed i fautori della guerra; e la viltà di Pietro de’ Medici diè loro l’ ultima spinta a proseguire in quella mal augurata impresa. Questo principe il quale, finché l’armi di Francia erano lontane avea animato la Repubblica di Firenze ad opporvisi con ogni possa, tosto che le vide balenar da vicino, temendo del pari e l’ira di Carlo e quella del popolo che l’abborriva, uscì segretamente di Firenze, e portossi a Serezana ad inchinar quel monarca onde placarlo, e comprarne la protezione: quindi, senza alcuno speciale incarico della Repubblica piegò ad ogni più superba inchiesta, promise gran somma di danaro, e molte fortezze per garanzia della fede fiorentina. Ma ritornato in Firenze trovò tutti gli animi fortemente esacerbati contro di lui, ed il popolo in sollevazione: ché l’ aver ceduto con tanta pieghevolezza alle orgogliose ed immoderate richieste di Carlo pareva anche ai meno forti insopportabile viltà; e tanta fu l’indignazione di tutti, che avviatosi al Palazzo della Signoria per render conto di quanto aveva operato, gli fu preclusa l’entrata da diversi magistrati, che armati di tutto punto s’erano messi a quella in guardia. Erano fra questi Jacopo de’ Nerli e Gualterotto, giovani entrambi di alto lignaggio e ricchi, che acremente il rampognarono; e intorno ad essi tumultuariamente il popolo si affollò, sì che quasi gli veniva meno il tempo di montare a cavallo per fuggirsene in Bologna accompagnato da’ suoi fratelli il cardinal Giovanni e Giuliano. Quindi il popolo si armò, dichiarò di propria sua autorità ribelle Pietro; furono riempiute le case di paesani, e per tutto si preparava un’arrabbiata difesa ove Carlo avesse insistito nelle oltraggiose dimande consentite da Pietro.

Frattanto, tuttoché lo sdegno di Carlo fosse non piccolo per tanta opposizione, si aprirono a Signa, luogo da Firenze sette miglia distante, nuovi negoziati; ma persisteva Carlo, e persistevano i Fiorentini. Finalmente vennero in accordo che Carlo sarebbe stato in sembianza di amico accolto in Firenze, dove, coi supremi magistrati in persona, si sarebbero pacificamente discusse le contestazioni, e ne fu determinata l’epoca col dì diciassette novembre 1494, cioè nove giorni appunto dopo che Pietro de’ Medici n’era stato ignominiosamente cacciato.

Queste nozioni preliminari, come quelle che sono affatto conformi alla storica verità, saranno ignote a pochi che delle patrie cose non sieno del tutto digiuni; ma abbiamo creduto necessario permetterle per richiamarle a memoria a quelli ai quali sono note, e per intelligenza di un lettore straniero, o di chi non avesse ancora trovato il tempo e il modo d’instruirsi nelle storie d’Italia nostra.

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