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Con questo lavoro Ayuso prosegue l’indagine sulla crisi dello Stato moderno iniziata nel 1996 con Después del Leviathan? e continuata con Ocaso o eclipse del Estado? del 2005. Il cui filo conduttore è la necessità di chiarire e approfondire il senso, la funzione (e i compiti) dello Stato moderno, in crisi evidente dal secolo scorso, e in particolare il rapporto tra questo, la globalizzazione e la post-modernità.
Come scriveva l’autore, già nel primo dei libri citati, il paradosso della modernità politica è che al venir meno dello Stato moderno si corre il rischio di demolire ciò che è più profondo e stabile, la propria comunità politica; della quale lo Stato è solo una delle forme (o formule) politiche, assunta dal XVI secolo in poi.
Come scrive l’autore, la chiave interpretativa dei mutamenti in corso è la stessa applicata a quelli precedenti i tempi attuali. Gli argomenti trattati sono: nazione, costituzione, comunità, società, governo e democrazia.
Tutti sono considerati rilevando il cambiamento di senso che le idee subiscono col mutare delle concrete situazioni storiche; in tale contesto, tuttavia, l’autore nota che anche il senso “post-modermo” era in certa misura contenuto nella concezione “originale” e se ne differisce grandemente, usa gli stessi termini ed espressioni. Ad esempio la formula “più società meno Stato”: all’inizio costituiva una rivendicazione anti-burocratica, successivamente con un senso parzialmente diverso fatta propria dalla Chiesa, ambedue accomunate dalla difesa dell’autonomia sociale da uno Stato forte che si voleva limitare. Ora è usata non tanto per quello, ma soprattutto per indebolire lo Stato: non è una difesa da questo, ma un attacco allo stesso.
Oppure la tendenza – apparentemente contraddittoria – dello Stato moderno da un lato al particolarismo (la frammentazione della res publica christiana), dall’altro alla universalizzazione del modello statale. Nella fase attuale la prima tendenza si è trasformata in una dissoluzione pluralistico-policratica (lobbies, separatismo delle piccole comunità e così via); l’altro ha creato un sistema economico globale, che tende ad esautorare e/o indebolire il potere statale (e i suoi connotati peculiari).
In altre parole: è l’ideologia statale, sostiene Ayuso, ad aver creato le premesse dell’attuale momento di crisi: contratto sociale al posto delle costituzioni storiche, società a quello di comunità, l’individuo in luogo dell’uomo concreto. Alla fine dell’evoluzione lo Stato, nato dall’emancipazione del pensiero politico “classico”, in particolare di Aristotele e San Tommaso, sconta l’insufficienza – più che l’erroneità – dei tre pensatori che (sopra gli altri) l’hanno concepito: Machiavelli, Bodin e soprattutto Hobbes.
Non insistiamo nell’esposizione delle tesi dell’autore, varie e articolate, perché esulano dai limiti di una recensione.
Piuttosto due notazioni al libro.
Se è vero che (gran) parte delle ragioni della crisi attuale risalgono all’ideologia “genetica” dello Stato moderno (sono cioè endogene), è da considerare se tali “vizi d’origine” sono la logica conseguenza o il risultato, per così dire, di una patologia degenerativa.
Ad esempio: la concezione dello Stato (e del potere politico) si regge su una antropologia negativa, tale sia nella Bibbia che in S. Agostino o S. Tommaso. Ma anche in Machiavelli e in Hobbes. L’uomo è un animale politico e ha bisogno del potere politico (di governo) perché ha una natura problematica, segnata dal peccato originale. Espressa sinteticamente, per giustificare la Costituzione (democratico-liberale) nordamericana nell’asserto del Federalista che se gli uomini fossero angeli, non vi sarebbe bisogno dei governi; se lo fossero i governanti non ci sarebbe la necessità di controlli sui governi; ma dato che gli uomini non sono angeli, c’è bisogno degli uni e degli altri. La concezione liberale “classica” presupponeva la concezione dell’uomo dal pensiero cristiano e non si discostava da quella, per cui lo Stato (il potere politico) trovava lì il proprio fondamento e giustificazione. Ma nel corso del XX secolo, come conseguenza del pensiero post-hegeliano del XIX e soprattutto del marxismo, si è sostenuto che era possibile anzi “scientifico” cambiare la natura umana, cambiando i rapporti di produzione. Con le conseguenze che abbiamo visto. Ciò non toglie che il pensiero liberale-democratico “classico” è evidentemente la secolarizzazione della teologia politica cristiana, mentre il marxismo, e in parte anche altre concezioni, sono la secolarizzazione di concezioni eretiche cristiane.
Le evidenti influenze gnostiche e pelagiane presenti nel marxismo, quelle pelagiane anche in altre concezioni (in quelle sansimoniane, tra le altre) lo rendono palese; con la convinzione che l’uomo sia capace di costruire (a tavolino) una società perfetta, e quel che più conta farla stare in piedi.
Convinzione su cui ironizzava de Maistre. Ma che evidenzia la cesura, anzi l’inesorabile opposizione tra il pensiero politico cristiano e liberale e quello che ne costituisce la negazione, addirittura nei più fondamentali presupposti.
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Miguel Ayuso,
El estado en su labirinto,
El estado en su labirinto,
Ediciònes Scire, Barcellona 2011, pp. 144.
Con questo lavoro Ayuso prosegue l’indagine sulla crisi dello Stato moderno iniziata nel 1996 con Después del Leviathan? e continuata con Ocaso o eclipse del Estado? del 2005. Il cui filo conduttore è la necessità di chiarire e approfondire il senso, la funzione (e i compiti) dello Stato moderno, in crisi evidente dal secolo scorso, e in particolare il rapporto tra questo, la globalizzazione e la post-modernità.
Miguel Ayuso |
Come scrive l’autore, la chiave interpretativa dei mutamenti in corso è la stessa applicata a quelli precedenti i tempi attuali. Gli argomenti trattati sono: nazione, costituzione, comunità, società, governo e democrazia.
Tutti sono considerati rilevando il cambiamento di senso che le idee subiscono col mutare delle concrete situazioni storiche; in tale contesto, tuttavia, l’autore nota che anche il senso “post-modermo” era in certa misura contenuto nella concezione “originale” e se ne differisce grandemente, usa gli stessi termini ed espressioni. Ad esempio la formula “più società meno Stato”: all’inizio costituiva una rivendicazione anti-burocratica, successivamente con un senso parzialmente diverso fatta propria dalla Chiesa, ambedue accomunate dalla difesa dell’autonomia sociale da uno Stato forte che si voleva limitare. Ora è usata non tanto per quello, ma soprattutto per indebolire lo Stato: non è una difesa da questo, ma un attacco allo stesso.
Oppure la tendenza – apparentemente contraddittoria – dello Stato moderno da un lato al particolarismo (la frammentazione della res publica christiana), dall’altro alla universalizzazione del modello statale. Nella fase attuale la prima tendenza si è trasformata in una dissoluzione pluralistico-policratica (lobbies, separatismo delle piccole comunità e così via); l’altro ha creato un sistema economico globale, che tende ad esautorare e/o indebolire il potere statale (e i suoi connotati peculiari).
In altre parole: è l’ideologia statale, sostiene Ayuso, ad aver creato le premesse dell’attuale momento di crisi: contratto sociale al posto delle costituzioni storiche, società a quello di comunità, l’individuo in luogo dell’uomo concreto. Alla fine dell’evoluzione lo Stato, nato dall’emancipazione del pensiero politico “classico”, in particolare di Aristotele e San Tommaso, sconta l’insufficienza – più che l’erroneità – dei tre pensatori che (sopra gli altri) l’hanno concepito: Machiavelli, Bodin e soprattutto Hobbes.
Non insistiamo nell’esposizione delle tesi dell’autore, varie e articolate, perché esulano dai limiti di una recensione.
Piuttosto due notazioni al libro.
Se è vero che (gran) parte delle ragioni della crisi attuale risalgono all’ideologia “genetica” dello Stato moderno (sono cioè endogene), è da considerare se tali “vizi d’origine” sono la logica conseguenza o il risultato, per così dire, di una patologia degenerativa.
Ad esempio: la concezione dello Stato (e del potere politico) si regge su una antropologia negativa, tale sia nella Bibbia che in S. Agostino o S. Tommaso. Ma anche in Machiavelli e in Hobbes. L’uomo è un animale politico e ha bisogno del potere politico (di governo) perché ha una natura problematica, segnata dal peccato originale. Espressa sinteticamente, per giustificare la Costituzione (democratico-liberale) nordamericana nell’asserto del Federalista che se gli uomini fossero angeli, non vi sarebbe bisogno dei governi; se lo fossero i governanti non ci sarebbe la necessità di controlli sui governi; ma dato che gli uomini non sono angeli, c’è bisogno degli uni e degli altri. La concezione liberale “classica” presupponeva la concezione dell’uomo dal pensiero cristiano e non si discostava da quella, per cui lo Stato (il potere politico) trovava lì il proprio fondamento e giustificazione. Ma nel corso del XX secolo, come conseguenza del pensiero post-hegeliano del XIX e soprattutto del marxismo, si è sostenuto che era possibile anzi “scientifico” cambiare la natura umana, cambiando i rapporti di produzione. Con le conseguenze che abbiamo visto. Ciò non toglie che il pensiero liberale-democratico “classico” è evidentemente la secolarizzazione della teologia politica cristiana, mentre il marxismo, e in parte anche altre concezioni, sono la secolarizzazione di concezioni eretiche cristiane.
Le evidenti influenze gnostiche e pelagiane presenti nel marxismo, quelle pelagiane anche in altre concezioni (in quelle sansimoniane, tra le altre) lo rendono palese; con la convinzione che l’uomo sia capace di costruire (a tavolino) una società perfetta, e quel che più conta farla stare in piedi.
Convinzione su cui ironizzava de Maistre. Ma che evidenzia la cesura, anzi l’inesorabile opposizione tra il pensiero politico cristiano e liberale e quello che ne costituisce la negazione, addirittura nei più fondamentali presupposti.
Teodoro Klitsche de la Grange
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