giovedì, giugno 28, 2007

Ricordi di un’epoca attraverso la rete. In memoria di Aldo Moro e Franco Tritto.

Versione 1.1

Ho intrapreso la lettura di un libro che mi sembra ben impostato e congegnato, nonché meritevole di essere letto. Credo che lo si posso collocare nel genere “memorialistica”, almeno in parte. L’autore, Pino Casamassima, narra anche fatti di cui fu testimone ed in un certo senso siamo tutti testimoni in quanti compresi in quella generazione. Il libro ha il seguente titolo e sottotitolo: Il libro nero delle brigate rosse. Gli episodi e le azioni della più nota organizzazione armata dagli “anni di piombo” fino ai nostri giorni. L’editore è Newton Compton. Si tratta di un volume di circa 430 pagine ricche di dati e di nomi, che anche io in parte ricordo. Si parla fra l’altro della prima facoltà di Sociologia in Trento. Quando nel 1970 mi sono immatricolato all’università di Roma pensavo con una certa invidia alla possibilità di andare a Trento per iscrivermi ad una facoltà che sembrava di moda. Per fortuna, fu solo la bizzarria di un momento e scelsi un’università ed una facoltà, non fra le ultime d’Italia – la Sapienza – dove potevo recarmi anche a piedi senza costituire nessun aggravio economico per i miei genitori. Ciò che qui mi propongo è di annotare nomi e luoghi mentre procedo nella lettura del libro. Di tanto in tanto cercherò in rete links ed immagini disponibile. Negli anni settanta non esisteva internet e la connessione continua adsl. Oggi esiste ed è un’opportunità di cui faccio ampio uso. Una sorta di quaderno di appunti, dove chiunque che ne abbia voglia, può accedervi. A questo punto non posso non rivolgere un ricordo commosso al mio collega di università di studi, di stanza, di lavoro che in tutta questa storia ha un tragico ruolo. Si tratta di quel prof. Franco Tritto a cui le Brigate Rosse telefonarono per indicare il luogo dove avrebbero potuto trovare il corpo di Moro. Con Franco Tritto eravamo stati insieme studenti al corso di diritto penale con Aldo Moro. Siamo rimasti sempre in contatto in quanto ricercatori nella stessa facoltà, di cui condividevano anche la stessa stanza: filosofia del diritto io diritto penale lui. La stessa scrivania fino a quando nella stessa piccola stanza non si trovò modo di far entrare tre scrivania, una per cattedra. A parte la comune cena con Aldo Moro, al termine del corso di diritto penale, non avevamo mai avuto occasione di incontarci fuori dell’università, ma non ne sentivamo il bisogno perché l’università stessa forniva la più frequente occasione per vederci. La notizia della sua prematura ed improvvisa morte mi giunse in piena estate, mentre ero sulla spiaggia. Mi colse allora il rimorso ed il rimpianto per non averne allora coltivata l’amicizia anche fuori dell’università. La sua vita privata mi è rimasta del tutto sconosciuta. Entrambi, sia pure in modo diverso, siamo rimasti segnati dalla tragedia dell’assassinio del comune “Maestro”. Non trovo purtroppo in rete nessuna foto di Franco Tritto ed io non ne possiedo nessuna. Era molto riservato e diffidava di internet e della posta elettronica.

Sommario:

1.
Tutto comincia da Berkely


«Durante gli ulimi mesi del 1964 l’università californiana di Berkeley è occupata dagli studenti guidati da un ragazzo di chiare origini italiane, Mario Savio. È l’inizio della contestazione» (p. 15).
Mario Savio (1942-1996)

Per la verità il nome Savio non mi ricorda nulla, ma Berkeley si. Da studente che nel 1968 aveva 18 anni cercavo di tenermi informato su quanto succedeva nel mondo. Compravo anche dei libri di attualità, o di cui sentivo spesso parlare, specialmente quelli di Marcuse. I componenti di una stessa generazione comunicano fra di loro più con le emozioni condivise, gli stati d’animo, le speranze, le frustrazioni, e simili irrazionalità che non nelle forme del linguaggio e del discorso formalmente elaborato e costruito. Solo molto tempo dopo gli eventi si riesce a dare una forma logica alle esperienze vissute o anche lontanamente condivise. Ma anche in queste caso le costruzioni che ne vengono fuori possono essere arbitrarie e le realtà può essere diversa o restarne largamente fuori. Altro è la vita nel suo svolgersi, altra la ricostruzione mentale del vissuto, del passato.

«È l’inizio della contestazione. Il vento che soffia dalle coste della California arriva in Europa due anni più tardi, e l’Italia è il primo Paese del vecchio continente a esserne scosso: il 9 febbraio del 1966 a Milano vengono arrestati due anziani tipografi e sei giovani, studenti e lavoratori. La principale imputazione che grava su alcuni di loro è quella di aver diffuso volantini a favore dell’obiezione di coscienza, istigando quindi i militari alla disobbedienza» (p. 15-16).


Per la verità io il termine “contestazione” l’ho sempre trovato strano e libresco. Se devo definire la mia condizione spirituale di quegli anni io non mi definisco un “contestatore”, termine che mi occorre prima tradurre per capire cosa significhi propriamente. Deve essere stato coniato dai giornalisti o da qualche sociologo e sarebbe interessante un’indagine linguistica analoga a quella che ho visto svolgere, stucchevolmente e inutilmente, nel corso del recente megalitico convegno paneuropeo-episcopale, dove ho sentito analisi linguistiche del “catechismo” e della scrittura di Sant’Alfonso. In quegli anni frequentavo ancora la parrocchia. La mia “contestazione”, dopo la lettura de L’essenza del Cristianesimo, di Feuerbach fu un formale atto di abiura che attaccai sul crocefisso in sacrestia. Cessò quindi il mio impegno nell’Azione Cattolica, anche se conservai sempre l’amicizia con non pochi sacerdoti ed il rispetto che avevo verso di loro.

Links e note:
1. I due anziani tipografi. Credo che a questa fonte abbia attinto a piene mani il nostro Pino. Le parole sono quasi le stesse. Se così è, andava fatta una nota di rinvio. Ai miei studenti insegno che si può citare anche da internet. Credo che la massa di dati già oggi disponibile in rete superi di gran lunga quanto è possibile ricavare da qualsiasi biblioteca privata, per quanto ben fornita essa sia. Volevo trovare qualcosa di più preciso su questi due anziani tipografi ed i nomi degli arrestati giovani.

2. Wikipedia: Mario Savio. Mi impressiona l’anno della sua morte: il 1996, all’età di 54 anni. Pur non sapendo nulla lui, mi immagino una vita tragica.

3. Fonte iconografica: Berkeley 1964. La foto che si vede sopra con Mario Savio in mezzo alla folla è del 1° ottobre 1964. La foto originale ha una didascalia alla quale si rinvia.

(segue)

domenica, giugno 24, 2007

Testo dell’Intervista a faurisson a cura di Claudio Moffa in data 17-19 aprile 2007

Versione 1.2

Ne riporto integralmente il testo che mi riservo di studiare e commentare.

* * *

Teramo 17-19 aprile 2007

INTERVISTA A ROBERT FAURISSON

a cura di Claudio Moffa
(e di altri)



D: Domenica 18 Marzo 2007, vi ringraziamo per aver accettato di rispondere alle nostre domande. Potete presentarvi?

F: Bene, mi chiamo Robert Faurisson ho 78 anni, sono stato professore universitario e ho insegnato alla Sorbona e all’Università di Lione. La mia prima specializzazione è stata in letteratura francese e in seguito in quella disciplina che si chiama “critica dei testi e documenti”, di letteratura, di storia e dei mass media. Vale a dire come leggere un documento, guardare un’immagine e così via. Perché in genere si crede di saperlo fare, ma non è affatto vero, bisogna imparare.

D: Voi siete considerato da tutti e da molto tempo come un cosiddetto negazionista delle camere a gas. Come siete arrivato a ottenere questo status?

F: Mi si tratta in effetti da negatore o negazionista, ma sono parole che non amo affatto perché io non nego nulla. Semplicemente in base alle mie ricerche sono giunto alla conclusione che quelle che si chiamano camere a gas naziste non sono mai esistite, ed aggiungo che non sono mai potute esistere, per ragioni d’ordine fisico e chimico. Ma permettetemi di spiegarvi il mio metodo di lavoro...

D: Sì, esponeteci il vostro metodo di lavoro, anche in rapporto con la vostra attività di critico di testi letterari.

F: Bene, all’inizio mi sono accorto che la maggioranza di noi non sa leggere con attenzione: ci lasciamo ingannare dalle immagini, non siamo molto attenti al testo scritto o alle intenzioni che ha chi scrive. Quando ascoltiamo persone che si dicono testimoni, non sappiamo distinguere il vero dal falso. Quindi, dopo l’analisi di testi letterari sono passato alle questioni storiche, e in particolare a ciò che si chiama Olocausto. Ecco il mio metodo: se ho a che fare con un grande tema come l’Olocausto vado a cercare il centro, e una volta trovatolo, cerco il centro del centro. Se voglio sapere se realmente c’è stata l’intenzione da parte della Germania nazista di sterminare fisicamente gli ebrei d’Europa io vado a cercare quello che chiamo il centro: il campo di Auschwitz. In quel campo, dove c’erano forni crematori, e in questo non c’è nulla di criminale, c’erano anche – si dice – delle camere a gas per l’esecuzione delle persone. Se permettete, vi dico prima la mia conclusione, spiegando poi come vi sono giunto. La mia conclusione è che non è mai esistita una politica di sterminio degli ebrei. Gli ebrei hanno sofferto molto, gli europei li hanno messi nei campi di concentramento, ed è vero che un gran numero di loro è morto ed è stato ucciso, ma il punto è se realmente sia esistita in questi campi di concentramento l’arma di distruzione di massa delle camere a gas. Ecco dunque che io ho proceduto così: non proprio come un professore, ma piuttosto come un ispettore o un poliziotto di una squadra anticrimine. Se dite che i tedeschi hanno usato le camere a gas, fate una terribile accusa e la mia domanda è: dove sono le prove? ... e non intendo false prove ma intendo prove come quelle che si usano in un’inchiesta di polizia tecnica o scientifica. Mi seguite bene?

D: Si, vi seguo bene...

F: Bene, per la mia indagine vado allora sul luogo, ad Auschwitz a Majdanek o Dachau o in altri campi, e semplicemente chiedo: mostratemi ciò che chiamate camera a gas. Ho scoperto, nel corso di questa indagine, che sono tutti assolutamente incapaci di mostrarmi l’arma del crimine, e qualche volta mi si dice: non è una cosa sorprendente perché i tedeschi, comprendete bene hanno distrutto tutto. A questa affermazione rispondo che, ammettendo che abbiano eliminato le prove - e questa è una seconda accusa - ammettendolo, potete riprodurmi un disegno tecnico per spiegarmi come funzionava una camera a gas?

D: Vorrei che precisaste una cosa, in che anno avete fatto questa scoperta?

F: Ho cominciato ad interessarmi all’argomento negli anni ’60 ed ho quasi “consacrato” la mia vita alla “questione dell’Olocausto” dal 1974 in poi.

D: Volete dunque dire che fino agli anni ’60 nessuna inchiesta di polizia scientifica è stata fatta nei confronti di questo crimine orribile, e che perciò senza averne certezza e conferma sono state non solo accusate, ma anche condannate delle persone per la distruzione degli Ebrei di Europa, e per l’eliminazione fisica di 6 milioni di ebrei?

F: La mia risposta vi sorprenderà ma fino agli anni ’60 non c’è stata nessuna vera perizia, salvo negli anni ’50, quando una volta si concluse che quelle che si chiamano camere a gas tali non erano. Nonostante questo, fino al 1974, ed anzi fino ad oggi che siamo nel 2007, la Germania è stata accusata di un crimine enorme. Allora quello che io dico è: vi voglio credere, ma portatemi una perizia criminale. Quando mi dite “qui ad Auschwitz ciò che visitate è una camera a gas” io dico: un attimo, io vedo una stanza inoffensiva, vedo allo stesso tempo delle impossibilità tecniche perché questa sia una camera a gas ... ebbene ... datemi delle prove, datemi insomma ciò che un qualsiasi poliziotto anticrimine tirerebbe fuori.

D: Potete descriverci il modo in cui avete proceduto nella vostra indagine?

F: Quando ho detto “mostratemi una camera a gas”, non sono stati in grado farlo, quando ho detto mostratemi una perizia non sono stati capaci di farlo, quando ho chiesto datemi delle prove, mi hanno fatto vedere essenzialmente una confessione di uno dei 3 comandanti di Auschwitz, Rudolf Hoss, da non confondere fra l’altro con Rudolf Hoess. In effetti, perciò, noi abbiamo una confessione, ma a priori una confessione non è una prova, è una sorta di testimonianza, peraltro di bassa categoria, poiché é un vinto che confessa un crimine al vincitore. Hoss dice che c’era una grande camera a gas dove poter mettere 1000, 2000, 3000, o addirittura 4000 ebrei. In questa camera si versava attraverso 4 buchi lo Zyklon B, la gente dentro cominciava ad urlare e quando non si sentivano più le grida si capiva che erano morti: ecco allora che una squadra speciale, costituita da ebrei, metteva in moto un apparecchio di ventilazione ed entrava immediatamente, magari fumando o mangiando, prendeva i cadaveri li portava fuori, e poi verso i forni crematori per incenerirli. Ebbene tutto questo è assurdo.

D: Perché sarebbe assurdo?

F: E’ assurdo perché lo Zyklon B, un prodotto inventato agli inizi degli anni ‘20 e creato come pesticida, è un prodotto estremamente violento: è composto di acido cianidrico ed ha come caratteristica particolare quella di attaccarsi fortemente alle superfici, e di penetrare nella pelle cosicché é estremamente difficile sbarazzarsene. Lo Zyklon penetra sia nelle pareti e nei mattoni che nel corpo umano, e soprattutto se la superficie è viva, la miscela agisce restando attiva, per cui se mi si dice che la gente poteva entrare addirittura mangiando, vuol dire prima di tutto che non portavano delle maschere a gas; se poi mi si dice che fumavano, questo non può essere, perché l’acido cianidrico è altamente esplosivo. Infine è impossibile toccare cadaveri di gente uccisa dall’acido cianidrico.

D: Dite che la gente muore a causa dell’acido cianidrico ma che questo non muore con le persone uccise, e anzi continua a fare vittime?... Ma per quanto tempo agisce?

F: Il tempo per “sgassare” un locale varia da più ore fino a 24 ore ma in genere è di 21 ore. Ma stiamo parlando di materia morta, di cadaveri, mentre in caso di materia viva è difficile stabilirlo, anche se lo si può fare grazie all’esistenza delle camere a gas americane: negli Stati Uniti in alcuni penitenziari giustiziano i condannati con l’acido cianidrico, ed è li che ci si rende conte che la camera a gas porta orribili complicazioni.

D: Avete visitato una camera a gas americana?

F: Sono andato a visitare, al fine della mia inchiesta, una camera a gas a Baltimora, ho delle foto che potrei mostrarvi. Non sono molto buone, ma ecco qui potete vedere la porta d’entrata di una camera a gas (mostra l’immagine da un libro, ndt)

D: Potete dirci cosa avete visto in una camera a gas americana?

F: Già negli anni venti Trenta e Quaranta una camera a gas americana per compiere l’esecuzione di un solo prigioniero, è un abitacolo isolato con vetri molto spessi. Quel che è difficile non è uccidere il condannato, ma entrare nella camera e ritirare il cadavere, ecco perché é assolutamente necessario avere questo tipo di porta (mostra la foto ndt): bisogna essere sicuri che la stanza sia ermetizzata, perché se l’acido cianidrico esce fuori, tutte le persone lì vicine rischiano di morire. Per cui all’interno si crea una depressione, si inala il gas nella stanza e siccome il gas resta attivo, subito dopo che il condannato è morto si mettono in moto dei ventilatori orientabili. In questo modo si scaccia l’acido cianidrico verso l’alto, forse posso mostrarvelo (mostra l’immagine ndt): ecco, vedete c’è un sistema di aspirazione che è diretto verso un miscelatore che ha il compito di neutralizzare il gas. Ciò che alla fine rimane viene immesso in un camino molto alto della prigione, al quale le guardie, una volta avvenuta l’esecuzione non possono avvicinarsi, il che indica quanto questo procedimento sia pericoloso. Solo dopo molto tempo un addetto e due aiutanti muniti di maschera a gas e ben protetti, entrano nella stanza e lavano il cadavere con molta attenzione, nonostante il corpo resti ancora pericoloso. Per cui a questo punto capite la potenza dell’acido cianidrico. E all’opposto ecco (mostra l’immagine ndt) ciò che si chiama ad Auschwitz camera a gas: noterete che c’è una porta ordinaria, un’altra semplice porta di legno con una vetrata che si apre verso l’interno dove ci sarebbero stati i cadaveri. Insomma per farla breve... ci sono delle grosse difficoltà.

D: Si tratta di difficoltà o di impossibilità?

F: Bene, questa è esattamente la parola giusta. Io dichiaro l’impossibilità tecnica.

D: Potete spiegarci in che occasione avete dichiarato pubblicamente che si tratta di una impossibilità tecnica? E cosa è successo?

F: Quando sono arrivato alla conclusione che di quest’arma straordinaria non si poteva dimostrare l’esistenza, né il funzionamento, e quando poi ho scoperto che era tecnicamente impossibile, allora su un giornale molto conosciuto della Francia, “Le Monde” sono riuscito a pubblicare nel 1978 un articolo dove scrivevo: «Ascoltate, è impossibile (che abbiano usato le
camere a gas ndt) o se è possibile spiegatemi come». Ho aspettato credo 6 settimane e alla fine ho visto un articolo su “Le Monde” dal titolo Dichiarazione di alcuni storici.

D: Avete fatto un’inchiesta di tipo poliziesco e avete ricevuto una risposta da storici?

F: Esatto, ho avuto la risposta da 34 storici che mi hanno risposto, e qui ascoltatemi bene perché é uno straordinario esempio di bestemmia professionale: «non bisogna domandarsi come tecnicamente tale sterminio di massa sia stato possibile, è stato possibile perché c’é stato». In parole povere questo vuol dire: Signor Faurisson non siamo capaci di rispondere alle sue domande, taccia. Questo accadeva il 21 Febbraio 1979 e a tuttoggi 18 Marzo 2007 io non ho ancora ricevuto una risposta.

D: Al suo lavoro cos’è successo?

F: Per quanto riguarda il mio lavoro la mia carriera è stata stroncata. In seguito ho subito ripetute aggressioni fisiche e ci sono stati tantissimi processi contro di me.

D: Processi su quale base?

F: Mi hanno accusato di essere un antisemita, un razzista. Quello che dico io è: scusate un attimo, se questo bicchiere (mostra un bicchiere con dell’acqua ndt) non può contenere un litro d’acqua e ci sono mille testimonianze che invece mi dicono «l’abbiamo visto contenere un litro d’acqua», allora per me sono mille testimonianze matte. Quindi in un primo momento mi hanno perseguitato dicendomi d’essere un crudele razzista, un cattivo antiebreo e così via, e poi sono passati a livello giudiziario. Ma nel 1983 una Corte d’appello ha deciso che il mio lavoro sull’Olocausto era talmente serio che tutti avrebbero dovuto avere il diritto di dire che le camere a gas non sono esistite: decisione presa da una corte di Parigi, il 26 Aprile 1983. Devo dire che non sono stato condannato perché parliamo di un tabù, non si può far tacere una persona che dice una cosa simile, e però mi hanno detto: «siete molto serio nel vostro lavoro ma anche molto pericoloso, non avete rispetto per le sofferenze delle persone». La decisione della Corte d’Appello del 1983 ha avuto un seguito nel 1990: le organizzazioni ebraiche hanno annunciato di non poter più aver fiducia nella magistratura francese perché c’era il rischio che si lasciasse il signor Faurisson libero di dire quello che voleva, visto che essa affermava il diritto di dire che le camere a gas non sono esistite. A questo punto, per loro c’era bisogno di una legge speciale, hanno combattuto duramente e alla fine l’hanno ottenuta.

D: E cosa dice questa legge?

F: Dunque, questa legge che è del 1990, dice che «chi contesta i crimini contro l’umanità definiti e puniti dal tribunale di Norimberga nel ‘45-’46 è perseguibile con una pena che va da un mese ad un anno di carcere, a un pagamento di 45.000 euro e altro ancora». Io sono stato condannato in nome di questa legge, chiamata “legge Gayssot”.

Photo de groupe. (de gauche à droite) Michel Duffour, Jean-Jack Queyranne, Catherine Tasca et Jean-Claude Gayssot à la sortie du Conseil des ministres, le 29 mars 2000.

D: Perché si chiama legge Gayssot?

F: Prende il nome del deputato comunista che la propose e ne chiese l’approvazione, anche se alle sue spalle c’era Laurent Fabius, un deputato ebreo molto importante, diventato primo ministro...


D: Dopo tutto ciò di cui avete parlato, per finire potete dirci a che punto è arrivata la vostra riflessione sulla Seconda Guerra Mondiale?

F: Io vi ho parlato di un solo aspetto essenziale, l’arma di distruzione di massa: come per Saddam Hussein, non mi sembra che ci fossero prove se non immagini o foto...

D: State forse dicendo che l’arma di distruzione di Saddam Hussein è anch’essa irreale come quella di Hitler?

F: Si certo, nella stessa maniera. Ma c’à da dire che ci sono altri aspetti da considerare sull’Olocausto: per esempio Hitler non ha mai ordinato l’uccisione degli ebrei. Ho studiato anche questo, Hitler voleva che gli ebrei si allontanassero dall’Europa, cercava ciò che i tedeschi chiamavano “una soluzione finale territoriale della questione ebraica”, ma questo aggettivo “territoriale” non l’ho sentito pronunciare da altri.

D: Che cosa vuol dire?

F: “La soluzione finale della questione ebraica”: questa formulazione lascia pensare alla sterminio fisico degli ebrei, ma se si re-inserisce il termine “territoriale”, capite bene che l’intenzione della Germania era, dopo la guerra, poiché si ricordi che la Germania stava combattendo una guerra, di trovare un territorio dove gli ebrei si sarebbero insediati. Ma non in Palestina. I tedeschi prima e durante la guerra dicevano ai loro alleati: «Trovate gli ebrei gente meravigliosa? Prendeteveli, ma a una condizione, gli ebrei che libereremo non dovranno andare in Palestina, questo per rispetto di un nobile e valoroso popolo, quello arabo, che ha già
sofferto a sufficienza». Ma arrivo subito alla fine, considerando gli altri aspetti: Hitler non voleva uccidere gli ebrei ma trovare un luogo, come per esempio il Madagascar o l’Uganda, o un territorio russo. Egli non autorizzò l’uccisione degli ebrei, perché era un ebreo. E’ bene dirlo, gli ebrei hanno molto sofferto così come i comunisti, perché lottavano contro il terzo Reich, ma anche i tedeschi hanno sofferto molto, per cui quello che dico a proposito di tutte le guerre è che sono una grande macelleria, il vincitore è un bravo macellaio, e il vinto un cattivo macellaio. Alla fine di una guerra può un vincitore impartire lezioni di “macelleria"? Non dovrebbe piuttosto dare lezioni di diritto, di giustizia e di apertura? Noi dal ‘45 non diamo lezioni di questo tipo al vinto ma aggiungo io - e non sto affatto prendendo le difese della Germania - bisogna capire che è pazzesco sostenere che i nazisti volevano uccidere gli ebrei, e che hanno creato un’arma apposita col risultato di aver fatto 6 milioni di morti, cioè l’equivalente della popolazione Svizzera. E bisogna capire che affermando questo senza prove, accusando Hitler, Himmler e così via, voi accusate anche, ed è ciò che dicono le organizzazioni
ebraiche, le nazioni alleate alla Germania, quelle neutrali come la Svizzera, il Papa, al quale si rimprovera «non ha fatto nulla contro tutto ciò», mentre il Papa li ha aiutati, e non ha mai detto «bisogna massacrarli tutti sistematicamente». Sotto questo profilo anche il Papa diventa un complice, o ancora meglio: andate a visitare i musei ebraici e vedrete che sono accusati anche Roosevelt per non aver bombardato Auscwhvitz, e Churchill, e De Gaulle, e Stalin, la Croce Rossa e tutto il mondo. Rendetevene conto!!

D: Questo discorso può essere usato anche per il popolo Palestinese?

F: Mbeh non si può certo accusare il popolo palestinese per quel che è accaduto nella II guerra mondiale, ma si può comunque dire: «in Palestina abbiamo sofferto tanto, abbiamo conosciuto sofferenze così grandi da aver diritto a leggi speciali: noi vogliamo questa terra e voi non potete rifiutarvi, perché noi abbiamo sofferto troppo».

D: Il popolo palestinese deve soffrire per la redenzione del peccato degli ebrei?

F: No! Non il peccato degli ebrei, ma la sofferenza. Vorrei che fosse molto chiaro che non prendo le difese di nessun vinto ma dico semplicemente che quando si accusa bisogna dare delle prove, e quando sono tutti quanti ad accusare queste prove devono essere numerose e solide, e qui non ci sono prove, né numerose né solide. Allora qui siamo di fronte a quella che viene propriamente definita una calunnia. Quindi cercate di capire i propositi dei miei tanti libri così come quelli di tutti i revisionisti, visto che la letteratura revisionista è di rilievo, anche se bisogna consultarla su internet, perché il nostro è un movimento generale di protesta contro un’immensa calunnia giudiziaria.

D: Grazie Sign. Faurisson

www.mastermatteimedioriente.it

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Una scheda informativa su Pierre Vidal-Naquet

Versione 1.0

Confesso di non sapere chi fosse Pierre Vidal-Naquet, o di averne dimenticato ogni riferimento, fino a quando non ho trovato il suo nome in un manifesto, originato da un gruppo di docenti torinesi guidati da Brunello Mantelli, in cui il suo nome era chiamato a sostegno per giustificare quello che a me appariva un grave atto di censura. È buona norma giustificare con argomenti intrinseci ciò che si vuol fare nel bene o nel male. Ma vediamo dunque chi era costui nei cui nome si giustifica la censura.

Links di partenza:
1. Wikipedia.it. Intanto è morto il 29 luglio 2006. Pace all’anima sua. Mi auguro per lui che sia stato chiamato in causa indebitamente dai firmatari di un manifesto liberticida, partito da Torino. Poiché non ho dubbi sulla natura liberticida e costituzionalmente illegittima dell’iniziativa torinese, a perderci sarà Vidal-Naquet se effettivamente abbia sia pure indirettamente concorso all’ignobile orchestrazione, culminata in veri e propri atti squadristici. La data della morte testimonia del fatto che non può avere nessuna responsabilità per fatti avvenuti il 18 maggio 2007. Storico dell’antichità, solo negli ultimi anni si scaglia contro i negazionisti chiamandoli “assassini della memoria”, termine che mi sembra poco scientifico tanto nella prima quanto nella seconda parte. Sempre negli ultimi anni le sue riflessioni si concentrazione sul mestiere dello storico, su cosa significa essere storici. Al momento, mi viene da pensare che negli ultimi anni della sua vita vi sia stata una perdita di rigore critico. Ma è ancora presto per giudicare. Vediamo se la rete ci consegna altro materiale.

2. Lumi da Jean Bricmont. Dal testo di un intervista a Jean Bricmont, uomo che conduce battaglie per la difesa della libertà di pensiero, possono ricavarsi maggiori lumi a proposito di Vidal-Naquet.
Silvia Cattori: nel quadro della sua riflessione sui principi ed i limiti della libertà d’espressione, si è interessato ad una controversia che ha opposto, alla fine degli anni settanta, il suo amico Noam Chomsky a Pierre Vidal-Naquet. Su cosa si incentrava la controversia, e quali punti di principio riguardanti la libertà di espressione contribuì a chiarire?

Jean Bricmont: non sono sicuro si possa parlare di “controversia“, perché questo suppone posizioni ben definite e io non so bene quali posizioni avesse Vidal-Naquet. Allorché Faurisson, che era professore di letteratura a Lione, ha reso pubbliche le sue vedute sulle camere a gas (sostiene che non sono mai esistite) , è stato rapidamente sospeso dall’insegnamento e perseguitato in modi diversi. Circolava allora una petizione, che chiamava a difendere i suoi diritti, siglata da 500 persone, di cui Chomsky. Questa petizione era neutra per quanto concerneva la validità delle affermazioni di Faurisson; quello che Vidal-Naquet aveva giudicato “scandaloso“ e ciò che aveva portato Chomsky ad un lungo scambio epistolare con Vidal-Naquet era altro. Ma evidentemente, come fa notare Chomsky, allorché si difende la libertà d’espressione di qualcuno, si lascia da parte il contenuto dei testi incriminati. Difendere un’espressione d’opinione non equivale a giudicarla. Discutere del substrato renderebbe d’altro canto impossibile una tale difesa, e non sarebbe che mancanza di tempo per esaminarli, magari perché sono scritti in russo o in cinese. Chomsky ha, d’altro canto, firmato numerose petizioni per dissidenti nei paesi dell’est, sia ignorando i loro punti di vista, sia conoscendoli bene ed essendo in totale disaccordo con essi, ma senza mai, di certo, esprimere la minima opinione a riguardo. In quel caso questo non gli è mai stato rimproverato, almeno in occidente.

Chomsky ha in seguito dato ad uno dei suoi amici dell’epoca Serge Thion – che conosceva a causa della loro comune opposizione alla guerra del Vietnam – uno scritto corto che riprendeva i suoi argomenti in merito alla libertà d’espressione. Gli ha detto di farne quel che voleva. Ma Thion si era, all’epoca, avvicinato a Faurisson e ha messo questo testo come “Avviso“ all’inizio di “Memorie a difesa“ pubblicato da Faurisson per rispondere alle persecuzioni giudiziarie di cui era oggetto. Ciò ha avuto per risultato che Chomsky è stato ostracizzato in Francia per lungo tempo ed in certi ambienti continua ad esserlo.

Poiché Vidal-Naquet si era in principio opposto alle leggi che reprimono la libertà d’espressione, come la legge Gayssot, non si può dire che ci fosse veramente una “controversia“ tra lui e Chomsky. Semplicemente, Chomsky adottava un atteggiamento di principio, che consisteva nel difendere la libertà d’espressione anche per le persone con cui è in disaccordo, mentre Vidal-Naquet esprimeva, al contrario, la sua “indignazione“ in diversi modi, ma senza adottare una posizione ben definita (per esempio in favore della censura). Bisogna dire che questa postura è abbastanza frequente tra i “democratici“ che sono una volta contro la censura e l’altra contro e si oppongono realmente, o – cosa che faceva anche Vidal-Naquet, così come Finkielkraut – che negano che vi sia censura allorché qualcuno è perseguito davanti i tribunali per le sue opinioni.

Dunque Vidal-Naquet non sarebbe altro che un “filisteo”, cioè un ipocrita che assume posizioni di principio a seconda che gli tornino comode o meno.