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Premessa. – Lungi da me mille anni luce il rivendicare una qualsiasi competenza sul merito della per me divertente divergenza fra Lia Origoni e Marcello Pezzetti. La Origoni, a ben vedere, non è già essa stessa testimone di qualcosa, ma protagonista di un evento che l’ebbe a riguardare di persona ben oltre 65 anni fa. Essendo nata il
20 ottobre 1919 aveva 20 anni compiuti nel 1939, giusto all’inizio della seconda guerra mondiale. E negli anni 1942-43 durante i quali si trovava in Germania, a Berlino, ne aveva ben 22-23 ed esattamente, quasi 23 nel settembre del 1943, quando venne scritturata per cantare a Berlino. Oggi Lia Origoni ha dunque 9o anni e tre mesi. A meno che i suoi medici non dicano che Lia sia affetta da demenza senile, la sua è un’età in cui si possono ben ricordare eventi della propria vita giovanile. Al contrario, si legge che Lia a 91 è ancora «lucidissima». E lo posso testimoniare personalmente, avendo avuto modo di poter parlare la la signora Lia. Inoltre per un fenomeno, che è stato osservato, le persone anziane pare ricordino più facilmente eventi remoti della loro esistenza, legati per lo più alla loro gioventù, che non eventi prossimi. Pertanto diremmo che la “testimonianza” di Lia Origoni non è tanto una testimonianza quanto un ricordo personale di eventi personali legati alla sua professione di cantante lirica.
E dunque se dice quel che dice le si dovrebbe normalmente credere. Ed invece lo storico olocaustico Marcello Pezzetti, organizzatore della «Memoria» si avvale di argomentazioni, che per una volta sono in controtendenza rispetto al suo metodo abituale e contrappongono la documentazione archivistica ai “testimoni”, anzi al testimone Lia Origoni che nella mostra è discriminato rispetto al testimone Shlomo Venezia, di cui Pezzetti ha pure curato un libro di testimonianza da noi
recensito. Peccato che questo criterio venga adottato solo per la Lia Origoni che parla con ferma e lucida decisione di “falsa” documentazione prodotta nella mostra organizzata da Pezzetti, almeno per quanto riguarda personalmente lei, la sua professione e il teatro della Scala di Milano, dove Lia iniziò a lavorare dal 1946, non prima. Lo stesso principio di subordinazione delle testimonianze ai riscontri documentali non sembra valere per il supertestimone Shomo Venezia o addittura per «
il più autorevole testimone vivente» che sarebbe Elie Wiesel, la cui “identità” non sembra trovare riscontri in una solida base archivistica-documentaria, che anzi sosterrebbe il contrario di ciò che comunemente si accredita. Mi aspetterei che per le cose gravi che si leggono sulla vera
identità di Elie Wiesel seguisse un’immediata smentita e che la pubblica fede, soprattutto quella di Gianfranco Fini, e delle più alte autorità dello Stato che hanno patrocinato la mostra, venisse tutelata.
Un’altra considerazione di carattere generale che può farsi su una vicenda in apparenza marginale è la seguente. La memoria è importante per ognuno di noi, innanzitutto come un riferimento identitario della nostra esistenza riferita al passato. In fondo non esistono le società se non costituite dalla somma degli individui che la compongono. Quindi la memoria personale del passato è sempre una somma di memorie individuali. E poiché gli individui sono tanti, milioni di milioni, le memorie sono altrettante. È violenza totalitaria, potremmo dire secondo un uso corrente, violenza
fascista, voler imporre a tutti una stessa memoria del passato, o come usa dire una memoria
condivisa. Alla Signora il regime dei Fini e degli Alemanno, ex di ieri che fanno oggi da maestri di storia e di eticità, vogliono togliere la memoriadei suoi anni giovanili, criminalizzandola e alterandola: non è ciò che ricordi tu, per come da te percepito, ma la memoria che ti diamo noi e che tu devi sottoscrivere, se no ti lasciamo a casa a “La Maddalena”, giacché non abbiamo i mezzi finanziari per un’operazione in perdita e controproducente per lo spettacolo che intendiamo dare.
Altra buffa pretesa di questo modo manicheo di intendere il passato è che all’epoca di Auschwitz non si poteva cantare, ballare e fare tutte le cose che nella vita ordinaria si fanno. Si doveva stare sbigottiti davanti ad un «orrore» che allora nessuno vedeva. Certamente, non lo ha visto Lia Origoni che nel 1942-43 era in Tournée per la Mittleeuropa. Dunque, i medici non avrebbero dovuto operare, i panettieri fare il pane, i calzolai riparare le scarpe. Insomma, viviamo oggi una costrizione della memoria ed una completa spersonalizzazione degli individui, costretti a cantare in coro le nuove canzoni di regime, quale neppure i regimi precedenti, demonizzati, avevano conosciuto. Ma non è Lia Origoni che gli organizzatori della mostra hanno inteso colpire, ma La Scala di Milano, cioè la massima istituzione musicale del paese, che qualcuno ha pensato di gettare nel fango, anzi in pasto ad una memoria
condivisa, di cui riesce difficile capire cosa poi sia, di cosa sia fatta. Infatti, ognuno di noi con gli anni che avanzano matura un suo particolare rapporto con la sua memoria individuale, esistenziale. La dove la memoria individuale non soccorre più è possibile solo l’interrogazione dei documenti, delle tracce e delle vestigia del passato, ma si tratta sempre di un’interpretazione individuale che è tanto più accurata ed onesta quanto sono accurati ed onesti i soggetti individuali che per un qualche motivo affrontano e scrutano un passato remoto. È chiaro poi che se questa ricostruzione non è libera ad ognuno, si tratta di operazione ideologica per fini di regime.
Sommario:
Premessa. – 1.
Il Corsera del 5 febbraio con refuso ed errata corrige. – 2.
Il Pezzetti del 27 gennaio con il documento “eccezionale”. – 3.
Il Pezzetti del 1° marzo con il suo documento “eccezzionale”: edito o inedito? Locandina o Bericht? – 4.
Visita autoptica della mostra con mancato rinvenimento dell’«eccezionale» documento. Alla ricerca della locandina perduta. – 5.
Lia Origoni sul web. – 6.
La locandina negata. –
Il Corsera del 5 febbraio con refuso ed errata corrige.
Ma torniamo al
testo di Lia Origoni che si legge sul
Corriere della Sera del 5 febbraio 2010, pagina 45:
La testimonianza dell’artista. Un episodio dimenticato del 1943
IO E LA SCALA MAI AD AUSCHWITZ
Lia Origoni: ho cantato nel teatro di Katowice, dista trenta chilometri dal campo di sterminio
A Berlino, fra gli anni Trenta e Quaranta, esisteva un teatro di rivista chiamato Scala, omaggio a quella «vera». Da questa omonimia è nato un equivoco storico ripreso nella mostra sulla Shoah del Vittoriano: qualcuno ha pensato che nel '43 la Scala avesse inviato un soprano, Lia Origoni, a cantare ad Auschwitz per le SS. Questa versione è stata accolta nell'articolo del «Corriere» del 27 u.s. Ma dalla testimonianza della Origoni, lucidissima novantenne, emerge un'altra verità. Alla fine del settembre del 1943 fui scritturata dalla signora Spadoni, agente per l’Italia di un impresario italo-tedesco per cantare alla Scala di Berlino, prestigioso teatro di rivista e canto: il contratto che ebbi in qualità di cantante avrebbe dovuto avere una durata di due mesi, ma visto il successo, si protrasse fino al dicembre del 1942 [evidente refuso di stampa per 1943?], successivamente lo stesso impresario aveva programmato una tournée in varie località della Germania, della Polonia e della Cecoslovacchia durante la quale abbiamo cantato in teatri e luoghi pubblici istituzionali. Il nostro pubblico era variamente composto da civili, soldati, feriti di guerra e ufficiali. Il luogo più prossimo ad Auschwitz nel quale ho cantato è stato nel teatro di Katowice che dista 30 chilometri dal campo di sterminio. Sono a conoscenza del documento che è stato esposto alla Mostra del Vittoriano dal quale risulta che invece il concerto si sia tenuto nella sede della Saal des Kameradschaftsheimes der Waffen, ma nello stesso documento si dice anche erroneamente che io ero una soprano della Scala di Milano, cosa che divenne realtà solo nel 1946. Il mio stupore e sorpresa è duplice in quanto per l' inaugurazione della Mostra al Vittoriano, alla quale ero stata invitata quale testimone dell'epoca, avevo fatto presente agli organizzatori, il dottor Nicosia della società Comunicare organizzando, e alla sua segreteria, gli errori inseriti nel documento. Nessuno dei curatori si è informato su quanto da me descritto né tantomeno sono stata interpellata per produrre, per esempio, documenti che attestassero la mia scrittura da parte della Scala di Berlino. Stranamente proprio dopo queste mie precisazioni l'organizzazione ha pensato bene di mettermi nelle condizioni di non poter presenziare non prevedendo la presenza di un accompagnatore che mi assistesse durante il viaggio da La Maddalena fino a Roma, viste le mie 90 primavere. So per esperienza che «chiedere una rettifica» è a volte dare per la seconda volta una notizia, ma soprattutto so di poter essere giudicata una anziana donna che per opportunità dice di aver cantato in un altro luogo per nascondersi: chi mi conosce (purtroppo i più sono morti) sa, che se fosse accaduto, lo direi, anche perché se è vero che molti non hanno visto è anche vero che molto era ben nascosto, ma ritengo inaccettabile che un evento nazionale patrocinato dalle più alte cariche dello Stato, butti capziosamente del fango su una delle primarie istituzioni del Paese come il Teatro della Scala di Milano di cui mi onoro di essere stata una delle interpreti a partire dal 1946. La storia non si racconta solo con i pezzi di carta che possono essere sbagliati come in questo caso, ma vive di testimonianze e di riscontri senza i quali si possono fare delle vittime eccellenti.
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Al testo sopra riprodotto con diritto di citazione scientifica aggiungiamo le seguenti osservazioni:
1°) La “Scala” di cui si parla non è la Scala di Milano, ma un teatro di varietà che esisteva a Berlino e dove Lia lavorava. Una banalissima omonia nella quale pare sia incorso il grande espero di Shoah Pezzetti.
2°) Lia Origoni in Auschwitz non c’è mai stata: per sua fortuna. Ed invece diventa sua malgrada una “testimone” di Auschwitz nella mostra organizzata dal superstorico Pezzetti.
3°) Lia Origoni incomincia a lavorare alla Scala di Milano solo dal 1946, a guerra finita. Fu scritturata dalla Scala di Berlino nel settembre del 1943, non nel febbraio dello stesso anno, come invece vorrebbe Marcello Pezzetti. I conti qui decisamente non tornano. Per giunta, se leggiamo bene, la scritturazione inizialmente prevista per due mesi (settembre-ottobre) si sarebbe protratta, a Berlino, fino al dicembre dello stesso anno, e solo «successivamente», quindi nel 1944, vi sarebbe stata una tournée oltre che nella stessa Germania anche in altri paesi, cioè: Polonia e Cecoslovacchia.
ERRARA CORRIGE
Avevamo già notato sopra nel nostro editing e commento l’incongruenza di date fra il 1942 e il 1943, un’inconguenza che è originaria del
Corriere della Sera, dal quale è inutile aspettarsi qualsiasi errata corrige. Nell’errore però eravamo incorsi anche noi supponendo che la signora Lia, secondo il suo lucidissimo racconto, fosse stata scritturata nel
settembre del 1943 e l’incongruenza del non lucidissimo intervistatore cadesse sulla data del
dicembre 1942 da dover quindi correggere in
dicembre 1943. Ed invece no! È il contrario ed in questo modo i conti, almeno in parte tornano. La signora Lia è stata scritturara dal teatro varietà “La Scala” di Berlino nel
settembre del 1942 (!). La seconda data del dicembre 1942 è invece esatta. Sarebbe stato davvero ben strano che nel settembre 1943 una cantante della Scala di Milano (!) andasse in giro in tournéé per la Germania, protraendosi fino all’estate del 1944.
È lucidissimo il ricordo della signora Lia e pieno di riscontri verificabili, se appena lo storico di mestiere facesse il suo mestiere esplorando tutti gli archivi possibili, prima di dire che altri documenti non esistono. E per dire che non esistono bisogna prima dire presso quali archivi si è stati. La signora Lia racconta di essere in Germania fino esattamente alla notizia della caduta di Mussolini il 25 luglio 1943. Se ben ho inteso, ma verificheremo di nuovo, la notizia di questo evento cruciale della nostra storia la raggiunse nel corso di uno dei suoi numerosi spettacoli, alla Scala
di Berlino, determinando l’interruzione dello spettacolo.
La Signora Lia si recò subito all’Ambasciata italiana per chiedere il rientro in Italia. Le fu messo a disposizione un vagone letto per l’Italia. Il treno allora come oggi cambiava a Monaco. Qui vi fu una manifestazione dei fan della Signora Lia, i quali avrebbero voluto che restasse in Germania e continuasse la sua tournée. Quindi, nel
febbraio del 1943 il nome di Lia Origoni era ben noto in Germania. Non si può escludere che l’equivoco fra la più nota Scala di Milano e la meno nota Scala di Berlino, accompagnato al fatto che Lia Origoni era italiana, fosse tutto nella testa di chi redigeva il Bericht, riportato nel libro citato più sotto da Pezzetti. Si badi: cita un libro uscito dieci anni fa, che copia documenti originali di un Bericht, ma non si parla più di
Locandina.
La notizia succulenta, da dare in pasto ai visitatore della mostra del Vittoriano, era che persino La Scala veniva intrigata e coinvolta, nel febbraio del 1943, con l’orrore di Auschwitz. La signora Origoni in fondo sarebbe stata un bersaglio secondario. Insomma, come si dice a Roma una pecionata non andata in porto. Più sotto, in data 1° marzo, lo storico olocaustico Pezzetti mette in dubbio la testimonianza “di parte” (?!) della Origoni opponendo una pagina di libro, qui da noi per altre mani e altri fonti ottenuta. Ma vediamo un po’ quale fonti, se facessimo il mestiere di Pezzetti, avremmo potuto esplorare e di cui non sappiamo, giacché non ce lo dice, se effettivamente esplorate dal direttore del Museo romano della Shoah, che grava sui cittadini romani per 23 milioni di euro, scempi urbanistici a parte, e non solo urbanistici. Intanto 1°) non dovrebbe essere difficile verificare al ministero degli esteri italiano la notizia della prenotazione e pagamento di un treno da Berlino per l’Italia, pagato dall’Ambasciata italiana; 2°) se anche non esistessero più gli archivi della Scala di Milano come quelli della Scala di Berlino per gli anni in questione, sarà pur possibile lo sfoglio dei giornali dell’epoca tanto tedeschi quanto italiani per seguire Lia Origoni in tournéé; 3°) quindi, per un ricercatore di mestiere non dovrebbe essere impresa impossibile stabilire se Lia Origoni, come lei stessa lucidamente ricorda ed afferma, non ha lavorato alla Scala di Milano prima del 1946. 4°) A questo punto diventa ovvio l’
abbaglio contenuto nel Corsera del 27 gennaio ed imputabile al virgolettato attribuito allo storico olocaustico Pezzetti, che sembra non basarsi su altro, non conoscere altro che due pezzetti di carta consistenti in altrettante pagine del libro citato, per giunta di dubbia interpretazione.
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Il Pezzetti del 27 gennaio con il documento “eccezionale”.
L’articola sopra citato del 5 febbraio è una sostanziale smentita di altro articolo, apparso sullo stesso Corriere della Sera, in data del 27 gennaio 2010, giorno istituzionale della Memoria, che riproduciamo, facendolo seguire da nostre osservazioni critiche.
Archivi Inaugurata con Elie Wiesel la mostra al Vittoriano. Una locandina inedita della tournée per le SS
E il soprano della Scala cantò ad Auschwitz
Ad accogliere il visitatore, in un viaggio che documenta e rievoca l'orrore nazista, le parole stampate su un pannello di Shlomo Venezia, uno dei pochi membri ancora vivi dei Sommerkommandos, gli speciali gruppi di deportati obbligati a collaborare con le SS nei luoghi di sterminio: «L'inferno, qualsiasi persona lo conosce dai libri, noi lo abbiamo vissuto». E Shlomo, matricola 182727 tatuata sull' avambraccio, era, con Sadi Modiano, uno dei superstiti presenti ieri per la visita in anteprima alla mostra «Auschwitz-Birkenau», che si inaugura ufficialmente oggi, in coincidenza con il «Giorno della Memoria», nel Complesso del Vittoriano a Roma. Con loro anche il premio Nobel per la Pace Elie Wiesel, ex internato a Auschwitz, in visita nella capitale dove oggi incontrerà il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il presidente della Camera Gianfranco Fini (alle 9.30 visita al Quirinale, alle 12 Wiesel terrà un discorso nell' Aula di Montecitorio alla presenza di Napolitano, con il quale, alle 17, inaugurerà la mostra). «Ricordare è l' unica cosa che può aiutare - ha detto ieri Wiesel - ed è fondamentale soprattutto per i giovani, affinché non si cada più preda dell' odio». Ad accompagnarlo, oltre a Fini, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta, il ministro per i Beni culturali Sandro Bondi e il sindaco di Roma Gianni Alemanno. «Una mostra per raccontare l' orrore e la storia in modo corretto, incentrata sul luogo simbolo dello sterminio, dove venne ucciso un milione di ebrei»: così la rassegna è stata sintetizzata da Marcello Pezzetti, storico della Shoah e uno dei curatori, con Bruno Vespa e Alessandro Nicosia, della mostra, suddivisa in sezioni tematiche e cronologiche. Tra i pezzi importanti esposti, Pezzetti segnala un documento giudicato «di eccezionale importanza» e ritrovato nell' archivio di Auschwitz: il 16 febbraio 1943 il Teatro alla Scala di Milano, rappresentato dalla celebre soprano Lia Origoni - sarda, classe 1919 - partecipò alla serata «Sud solare», con «stelle internazionali», per il diletto delle guardie SS di Auschwitz, organizzata dalla Kommandantur di Auschwitz-Birkenau: «Questo per dimostrare che da noi si sapeva più di quanto si voglia ogni tanto far credere», il commento. In mostra anche abiti di prigionieri, foto di torture ed esperimenti medici, piani di costruzione di crematori, documenti, lettere, diari e filmati, a partire dall' istituzione del campo, aprile 1940, e fino a quel 27 gennaio 1945, giorno dell' abbattimento dei cancelli da parte dell' Armata Rossa. Tra i focus, uno in particolare è dedicato ai bambini. Duecentomila quelli deportati a Birkenau, la quasi totalità uccisa nelle camere a gas il giorno stesso dell'arrivo. Altri, gemelli in particolare, dopo aver subito come cavie esperimenti di ogni tipo, erano eliminati con iniezioni di fenolo al cuore. La mostra dedica una parte della sua documentazione anche alla figura del famigerato dottor Josef Mengele, medico capo del campo, morto in libertà a San Paolo del Brasile nel 1979: «Fuggito - come ha ricordato Pezzetti - con la complicità del Vaticano».
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Mettiamo in evidenza le notizie che si trovano in questo articolo di Sassi Edoardo, mettendole a confronto con la smentita di Lia Origoni e con la successiva smentita alls stessa Origoni da parte dello storico Pezzetti cui si deve l’organizzazione scientifica della mostra del Vittoriano, inaugurata il 27 gennaio scorso e forse ancora aperta. Almeno, passandoci davanti vedo ancora lo stendardo pubblicitario. Non l’ho visitata e non ho un particolare interesse a farlo. Osserviamo:
1°) Personalmente, sono stato alla presentazione del libro di Shlomo Venezia in Campidoglio. La locandina dell’invito conteneva qualcosa come una sorta di prova definitiva sulle “camere a gas”, ma a meno che non mi sia totalmente distratto io non ho trovato nessuna “prova”, presente lo stesso Pezzetti, curatore del volume di Shlomo Sand. Ne avevo io stesso iniziato una sorta di recensione, sotto l’aspetto letterario, ma poi è subentrata una critica scientifica del libro per la penna di Carlo Mattogno. Per una conventio ad escludendum nessun vuol leggere le argomentazioni di questo storico, al quale un Pezzetti non ha pensato di chiedere consulenza: ne sa di più. Ora Shlomo Venezia, classe 1923, diventa un “testimone” anche sul teatro della Scala, non solo di “camere a gas”, mentre non trovo credito Lia Origoni, classe 1919, che alla Scala ci lavorò per davvero, cosa che nessuno le contesta.
2°) Secondo il racconto di un compagno di sventura dello stesso Elie Wiesel, questi benché richiesto, si sarebbe rifiutato di mostrare il numero di matricola. Il fatto suona strano. Adesso lo troviamo anche all’inaugurazione della mostra, dove non era invece presente Lia Origoni. L’«inedito» della mostra, pare di capire, era proprio la partecipazione del teatro della Scala di Milano agi «orrori del nazismo». Tutti, dunque, sapevano e tutti quindi hanno colpevolemente taciuto. I cantanti lirici della Scala di Milano andavano ad Auschwitz e dunque non potevano sapere. Da qui si procede alla criminalizzazione e colpevolizzazione di un’intera generazione, che è quella dei nostri padri, che nulla sapeva e nulla ci hanno detto e tramandato. Il programma ideologico della mostra era dunque chiaro.
3°) Poveri giovani! Di loro ci si preoccupa tanto, ma non per trovare loro un’occupazione, non per lasciarli liberi di pensare e di documentarsi.
4°) Il documento in questione, che riguarda la Scala di Milano, è presentato da Marcello Pezzetti come di «eccezionale importanza», dunque non qualcosa di marginale, ma probabilmente il pezzo forte della mostra, che ha avuto tra i suoi organizzatori addirittura Bruno Vespa. Se però dobbiamo credere a Lia Origoni, che dice di aver lavorato alla Scala di Milano solo dal 1946, cosa che non dovrebbe essere difficile verificarfe negli archivi della Scala... di Milano, si tratterebbe invece certamente di una “eccezionale bufala” che la direbbe lunga su manifestazioni simili che con grande dispendio di pubblico danaro, mentre cadono i soffitti delle scuole, ci vengono profusi a piene mani.
Sembra evidente che non storia si sia voluto fare, ma produrre un’ideologia che è esattamente il contrario di ciò che la storia dovrebbe essere, cioè una serena e distaccata comprensione del nostro passato, sia esso indivuale, riguardante la nostra individuale e personale esistenza, o sia un passato collettiva che riguarda l’esistenza associata degli uni con gli altri e dove i destini individuali nella buona come nella cattiva sorte appaiono intrecciati. Ancora a 65 dalla fine della guerra gli “antifascisti” dimostrano di mancare di quel patriottismo, che qualcuno – come si legge nel recente libro di Buscaroli – pensava di attribuire loro nell’imminenza della disfatta. Costoro hanno prosperato e costruito le loro fortune politiche e personali non su una legittimazione propria che si fossero meritati salvando la patria nella disgrazia, ma solo delegittimando un regime già di per se ormai privo di legittimità. Gli “eroi” del dopoguerra hanno rinnovato i fasti di Maramaldo, uccidendo un regime già morto e svendendo se stessi ed il paese all’invasore, che li ha resi “cupidi servi” fino ad oggi.
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Il Pezzetti del 1° marzo con il suo documento “eccezionale”: edito o inedito? Locandina o Bericht?
Esaminiamo ora la risposta di Marcello Pezzetti, direttore del Museo della Shoah di Roma, per il quale Alemanno ha destinato ben 23 milioni di euro, che riprendiamo dalla testata sionista «
Informazione Corretta» ma apparso sul Corriere della Sera di oggi 1° marzo 2010. Quanto alla domanda hasbarotica si potrebbe osservare che se veramente Lia era stata ad Auschwitz a cantare per gli stessi internati, che venivano “costretti” ad ascoltarla, forse non si era accorta dello “sterminio”, che probabilmente non veniva eseguito mentre lei cantava.
In occasione della «Giornata della memoria 2010», all’interno di un’importante mostra su Auschwitz-Birkenau allestita nel complesso museale romano del Vittoriano e alla Camera dei Deputati, è stato esposto un documento relativo a un concerto svoltosi ad Auschwitz il 16 febbraio 1943, organizzato dalla Kommandantur del campo, composta da SS, non da «civili» tedeschi, che ha visto la partecipazione di una cantante lirica italiana, Lia Origoni, indicata come cantante della «Scala» di Milano.
La signora Origoni, informata del fatto dall’organizzazione stessa della mostra, ha sostenuto in un intervento sul «Corriere» (5 febbraio) di non aver cantato ad Auschwitz, ma nella vicina città di Katowice, di non essere stata inviata lì dalla Scala di Milano, ma da quella di Berlino (un locale di varietà, non un teatro lirico), e soprattutto che un documento (in questo caso definito come «falso») ha meno valore di una testimonianza (in questo caso la sua).
Come curatore della mostra, mi limito a osservare che questo documento appartiene alla serie di ordini emessi dalla Kommandantur del campo di Auschwitz-Birkenau, archiviati nel Museo di Auschwitz, già pubblicati in Germania e giudicati da tutti gli storici come fonte privilegiata, di prima mano, quindi difficilmente contestabili. Se Mulka, aiutante del comandante di Auschwitz Rudolf Höss, ha ordinato a tutto il corpo delle SS di partecipare al concerto presso il Kameradschaftsheim («casa dei camerati») di Auschwitz, significa che i cantanti e musicisti spagnoli, ungheresi, italiani, quindi anche la «stella internazionale» Origoni, hanno allettato quei criminali proprio nei pressi del campo di sterminio, non altrove. Del resto alcuni sopravvissuti ci hanno confermato di essere stati obbligati più volte ad assistere a concerti nelle strutture adiacenti al campo e le ultime fotografie ritrovate di Auschwitz, anch’esse esposte in mostra, dimostrano che le SS si «divertivano» proprio in prossimità del campo stesso. Per confutare il contenuto del documento messo sotto accusa dalla Origoni è quindi necessario far ricorso ad altre prove documentarie — che però non esistono —, non certo a una testimonianza, soprattutto se di parte.
Abbiamo esposto questo documento non tanto per sottolineare la «collaborazione» di un’italiana al sistema di oppressione nazista — anche se cantare per i nazisti in Germania e in Polonia nel 1943 non è certo un fatto di cui andare fieri —; volevamo semplicemente far comprendere al pubblico come i carnefici nazisti concepissero la «normalità» della vita quotidiana all’ombra dei crematori: anche ascoltando musica italiana. Lo stesso giorno in cui si tenne il concerto, infatti, le SS bruciarono i corpi di 689 ebrei francesi, uomini, donne e tanti bambini, deportati da Drancy.
La Origoni non era certamente l’oggetto del nostro interesse scientifico in una mostra dal contenuto così drammatico e delicato (e come avrebbe potuto esserlo?). Invitarla all’inaugurazione dell’evento, con i rappresentanti delle maggiori istituzioni nazionali, sarebbe stato fuori luogo. La sua reazione, del resto, lo ha confermato.
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Ripeto che non sono per nulla un esperto sulla materia, e soprattuto che non ho nessuna conoscenza diretta degli archivi e della documentazione evocata e dalla Origoni, che però è lei stesso protagonista di eventi, individuali e personali della sua vita che la coinvolgono per fatti specifici molto più di quanto Shlomo Sand possa essere testimone di fatti pur sempre collettivi. Cerchiamo di ragionare in base ad una logica di attendibilità, veromiglianza, plausibilità. Dunque osserviamo:
1°) Siamo certi che Pezzetti abbia saputo leggere i documenti di cui parla? Siamo certi che egli non confonda la Scala di Milano con la Scala di Berlino? Ha consulato Pezzetti gli archivi della Scala di Milano per sapere quando Lia Origoni ha incominciato lavorare alla Scala di Milano? Dalla stessa Origoni sappiamo che questo periodo inizia con il 1946, non prima. Sono forse andati distrutti gli archivi della Scala di Milano? Ce lo dica Pezzetti! Se no, non lo sappiamo.
2°) È curioso come Pezzetti indica la testimonianza di «sopravvissuti» che guarda caso venivano costretti ad… «assistere a concerti»! Come forma di tortura è davvero insoliti, anche tutti sappiamo che certi concerti possono ben essere una tortura, alla quale qualche volta ci sottoponiamo volontariamente per ragioni sociali di buona educazione. Ma ciò che qui rileva è il principio di testimonianza giudicato valido per i fruitori, sia pure obbligati, di quei concerti, ma non invece valida per chi quei concerti doveva produrli cantando. Se dobbiamo ammattere un difetto di memoria, mi sembra più difficile che possa dimenticare da parte di chi a quei doveva cantare piuttosto che da parte di chi doveva soltanto ascoltare, magari annoiandosi e dormendo.
3°) E perchè mai la testimonianza della Origoni sarebbe «di parte»? Di parte rispetto a quale «controparte»? La Origoni ha cantato in tournéé – ci dice – oltre che a Berlino, al teatro della Scala, la cui esistenza Pezzetti non sembra aver smentito, anche «in varie località della Germania, della Polonia e della Cecoslovacchia». Per essere di parte e di controparte la Origoni avrebbe dovuto essere stata portata davanti ad un qualche tribunale e venire accusato per il reato di “canto” e magari avere come controparte quelli che si sono annoiati per averla dovuta ascoltare e che sono rimasto inorriditi davanta alla beltà dei suoi anni giovanili che si può riconoscere dalla foto.
4°) La Origoni dice: io ad Auschwitz non ho mai cantato, per giunta nel febbraio del 1943. Nulla esclude che nel febbraio del 1943 il teatro della Scala di Berlino abbia mandato cantanti e ballerine in giro per i luoghi dove avevano stanza gli eserciti. Succede credo in tutti gli eserciti del mondo. Il fatto in sé è storicamente e penalmente irrilevante, secondo il comune buon senso diverso da quello “corretto” dall’Hasbara di Tel Aviv.
5°) Infine, non si comprende se si fosse liberi o costretti, carcerieri e prigionieri, ascoltare la Origoni e ascontandola si soffrisse o ci si divertirsi. È alquanto strano il concetto che si possa veniri costretti a “divertirsi”. Ancora più strano argomentare che se io canto e chi ascolta il mio canto è ritenuto, magari mezzo secolo dopo un criminale, io ero pure un criminale per aver semplicemente cantato davanti ad un pubblico che era interessato allo spettacolo. Questa non è né storia né archivistica, ma deformazione morale che probabilmente costituisce l’humus con cui si allestiscono mostre e si scrivano libri ad educazione della più bella gioventù della nostra epoca felice.
6°) Ancora ci sembra di poter osservare come Marcello Pezzetti tenda a svalutare non già la testimonianza della Origoni, che sarebbe tale se riguardasse terzi a cui favore o disfavore lei fosse chiamata a testimoniare, ma è piuttosto una dichiarazione, anzi un’autocertificazione di eventi della sua attività professionale. La prima certificazione che conti è qui ciò che lei dice e dovrebbe essere Pezzetti in grado di smentirla con ben altra documentazione, che peraltro dice inesistente, che non con dei pezzetti di carta che lui potrebbe ben avere equivocato. Chi sa un poco di archivistica sa anche che ul documento non ha un valore assoluto. Posso citare il caso di un archivio storico di un’importante famiglia, il cui rampollo si divertiva a manipolare e falsificare le carte di famiglia per il solo gusto di fare ammattire i discendenti. Ma ancora Pezzetti non si rende conto, credo, di darsi la zappa sui piedi perché rispetto al critica revisionista, diffamatoriamente della negazionista, sono proprio i Pezzetti che valorizzano oltre ogni ragionevolezza le prove testimoniali, spesso contradditorie, rispetto alle prove documentali che o dicono altro o non esistono affatto rispetto a quelli che sono i tre assoluti della storiografica olocaustica: 1) il numero dei sei milioni di vittime; 2) la documentazione sulle camere a gas; 3) il famoso ordine, cioè l’intenzionalità dello sterminio. Quindi, due pesi due misure: va bene il testimone Shlomo Venezia che non prova nulla, ma non va bene una Lia Origoni che dice di non essere mai stata ad Auschwitz, beninteso per cantare in quanto sua ordinaria attività lavorativa in giro per tournée , e di non aver lavorato alla Scala di Milano prima del 1946.
7°) Non si capisce perché mai gli organizzatori della mostra avrebbero dovuto informare Lia Origoni se poi non avevano nessuna intenzione di tener conto delle sue dichiarazioni su eventi suoi personali di cui la mostra pretendeva di dare documentazione storica. Per disgrazia di Pezzetti la Origoni vive ancora ed è “lucidissima”. Insomma, la vogliono per forza far cantare ad Auschwitz, anche se lei continua a dire che no, ad Auschwitz lei non ha mai cantato. E la vogliono far cantare in forza di un documento che Lia dice essere “falso”.
8°) Lo stesso Pezzetti che cita un solo documento, dico uno solo, dice «nei pressi» del campo, non “dentro” il campo di Auschwitz. Il lettore comune, non esperto di questo genere di letteratura, non riesce a comprendere cosa significa «nei pressi». Sotto un albero? In un casolare abbandonato? O a 30 km da Auschwitz come dice appunto Lia Origoni? Dunque, in questo caso lo stesso Pezzetti darebbe ragione a Lia, che però aggiunge trattavasi della Scala di Berlino, non di quella di Milano, dove ancora in quegli anni non lavorava. Un archivista, a questo punto, avrebbe bisogno di avere in mano il documento e di confermarne o meno l’interpretazione data da Pezzetti.
9°) Pezzetti criminalizza Lia Origoni perché avrebbe “cantato” nel 1943 in tournée per l’Europa. È un principio elementare di civiltà giuridica la non retroattività del diritto penale. Se la mostra da lui organizzata, voleva essere “pedagogica”, è invece quanto di più antipedagogico e barbarico possa esserci. Insomma, a questo punto sulla base del «documento» di Pezzetti si può ben imbastire un processo penale alla novantenne Lia Origoni, rea di... aver cantato in tournée in giro per l’Europa nel 1943, non si sa bene se nel febbraio o ne settembre. Ma se eravamo in febbraio, come sostine Pezzetti, l’Italia e la Germania erano ancora formalmente alleati e nulla di illegale o immorale, in ogni caso, potrebbe essere imputato a Lia.
10°) È davvero curioso il modo di ragionare di Pezzetti. Più ci soffermiano sulle sue categorie mentali e sempre più troviamo deficit di logica. Orbene, Lia non è stata chiamata al processo di Norimberga, un processo dei vincitori sui vinti, la cui natura giuridica lascia quanto mai perplessi dei giuristi degli di questo nome. Ma sorvoliamo. Se Lia sarebbe una “di parte” la cui parola neppure per vicende proprie della sua vita può creduta, perché mai non dovrebbero essere “di parte” tutti i “sopravvissuti” che rilasciano testimonianze spesso contradditorie. I vantaggi di costoro sono innumerevoli. Lo stesso Elie Wiesel è diventato ricchissimo soltanto un quanto “sopravvissuto”. Non credo che nella vita abbia mai fatto altro mestiere che il “sopravvissuto”. Perché le testimonianze di tutta questa gente non dovrebbe essere “di parte”? A 90 anni perché mai dovrebbe temere di dire la verità se lei fosse stata davvero... a cantare in Auschwitz? Dico a cantare, non a infornare cadaveri nei forni crematori, o a spingerli nelle “camere a gas”? Dove starebbe il reato per il quale dovrebbe temere di essere accusata? O anche soltanto la censura morale, che esiste soltanto nella testa di Marcello Pezzetti? Anzi, poteva essere una magnifica occasione per fornire una preziosa testimonianza storica, non meno preziosa di quella di Shlomo Venezia.
11°) Piuttosto vi è da sorprendersi sui criteri di “normalità” che sono propri dello stesso Pezzetti, che però si contraddice con quanto dice poco sopra: a) quando al giornalisto Sasso che si tratta di un documento di “eccezionale importanza” quello che riguarda proprio Lia Origoni, la “criminale” che sarebbe andata a cantare in Auschwitz, nel 1943, ma poi dice la documentazione “vivente” – non un pezzo di carta – di quel fatto non è oggetto del (plurale maiestatis «nostro interesse scientifico». Dubito che Pezzetti sappia lontanamente dove la scienza stia di casa e che creda di poter impunemente infinocchiare quanto leggono il maggior quotidiano d’Italia, ribattezzato da alcuni spiriti sardonici, come il «Corriere di Sion», dove basta aver scritto tanto chi legge se la può prendere solo a quel posto secondo la migliore tradizione democratica di questo Paese, funestato da politici opportunisti e scienziati di regime.
12°) Le dichiarazioni di Lia appaiono quanto mai circostanziate: a) la non casuale omonimia; b) una certa signora Spadoni che all’epoca scritturò Lia per conto di un impresario tedesco; c) lascia intendere che ove richiesta avrebbe potuto produrre documenti; d) dice che alla Scala di Milano lei incominciò a lavorare solo dal 1946; e) Lia dice di essere stata inizialmente invitata alla mostra quale “testimone dell’epoca”: potevano non invitarla affatto anziché poi “snobbarla” come villanamente fa il Pezzetti, cosa che succede dopo che Lia Origoni li aveva avvertito del grossolano abbaglio; g) non dovrebbe essere difficile controllare l’affermazione di Lia seconda la quale era stata “soprano” alla Scala nel 1946, nei cui archivi dovrebbe risultare una tournéé in Auschwitz. Pezzetti tace al riguardo e si basa su un solo documento. Altri archivi potrebbero esistere alla Scala di Berlino. Pezzetti dice che non esistono altri documenti, ma non ci dice quali archivi ha esplorato. h) il testo di Lia Origoni denota a 90 maggiore lucidità, limpidezza ed onestà di quanto non ne appaia in quello del giovane Pezzetti, evasivo ed elusivo.
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Ho soltanto posto alcuni quesiti. La vicenda non finisce qui e mi auguro che chi è in grado di farlo faccia una seria verifiche dei documenti citati da Pezzetti: non è la prima volta né l’ultima che uno storico capisca fischi per fiaschi, ma soprattutto con una ricerca presso gli archivi della scala di Milano ed ancora presso la stessa “lucidissima” Lia Origoni, certamente in grado di poter fornire riscontri, ripeto, non alla sua “testimonianza”, ma delle sue dichiarazioni su fatti della sua vita privata e professionale. Se si scoprirà che è una mentitrice, almeno sapremo che è una mentitrice. Diversamente dobbiamo decidere se vogliamo credere a Pezzetti, di cui non trovo l’anno, ma suppongo successivo al 1945, e Lia Origoni, classe 1919 ed ancora “lucidissima”. Francamente, fra i due io sono più propenso a credere a Lia.
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Visita autoptica della mostra con mancato rinvenimento dell’«eccezionale» documento. Alla ricerca della locandina perduta.
Giusto per fare una passeggiata, non abitando distante dal luogo della mostra, mi sono recato ieri pomeriggio per vedere il documento citato da Pezzetti. Probabilmente per mia imperizia, sanabile, ma pur avendo avendo fatto due volte il giro della mostra ed avendo chiesto ai custodi e telefonato al numero che mi è stato fornito, non ho potuto vedere né il “documento” – suppongo il Bericht riportato nel libro citato – ne la “locandina” di cui si parla nell’articolo di Corsera del 27 gennaio scorso. Nella sua risposta alla signora Lia del 1° marzo su Corsera non lascia ben capire al lettore di cosa si stia parlando: a) se di una locandina, di cui sopra; b) o se del documento originale, pubblicato circa dieci anni fa, e quindi non inedito, che lo stesso Pezzetti cita nella sua risposta del 1° marzo.
In questo momento in cui scrivo, non ho ancora ricevuto nessuna risposta né telefonica né scritta alla mia richiesta di poter vedere il documento in questione, quale che esso sia, in una pubblica postra patrocinata dalle più alte autorità dello stato, dal presidente della Camera andando in giù fino al sindaco Alemanno, la cui firma ho visto compare anche nel catalogo della mostra. Anche lui è dunque uno storico. Forse un “testimone” pure lui, almeno per quanto riguarda il suo curriculum politico e le sue precedenti vedute storigrafiche. Fino alla data di chiusura della mostra non esclude altre passeggiate romane alla ricerca della locandina perduta.
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Come ricercatore di mestiere ho certamente un’idea del lavoro che si potrebbe e dovrebbe fare per verificare o smentire la notizia di stampa, risalente agli organizzatori della mostra, secondo cui – infamia delle infamie – Lia Origoni avrebbe cantato in Auschwitz, per diletto dei carcerieri, ed ivi mandata dal teatro della Scala di Milano. È una circostanza decisamente negata dall’interessata, la quale peraltro non avrebbe avuto nessuna difficoltà ad ammetterlo, ove fosse vera. Dalle scarne notizie di stampa e da altre sembra di capire che l’iniziale interesse da parte della mostra fosse proprio quello di procura un «testimone d’epoca», ma l’interesse deve essere scemato quando si è capito che la «testimone d’epoca» – la signora Lia porta benissimo i suoi 89 anni ed in lucidità mentale dà punti a parecchi giovanotti – non avrebbe testimoniato ciò che si voleva testimoniasse. Improvvisamente, sono mancati i soldi per far venire dalla Sardegna a Roma l’anziana signora che per i suoi 90 aveva bisogno almeno di un accompagnatore. Quei soldi che il sindaco Alemanno in milioni ventitrè non lesina, sul dissestato bilancio comunale e sulle spalle dei romani tutti, anche e soprattutto quelli di religione non ebraica, per un nuovo scempio urbanistico, la cui attività scientifica già si caratterizza in antitesi a ben altra istituzione italiana, il teatro della Scala di Milano, incautamente tirato dentro in questa storia.
Il punto nodale è se La Scala di Milano ha mandato o non mandato Lia Origoni a cantare per le SS di Auschwitz. Non si comprende in quale forma giuridica ciò sarebbe mai avvenuto. Se cioè con contratti stipulati direttamente dal teatro milanese che mandava per così dire in trasferta sue proprie maestranze, in questo caso cantanti come Lia Origoni, oppure se la stessa Lia Origoni, a titolo privato e non in quanto cantante della Scala di Milano, era andata da sola a cantare ad Auschwitz per le SS. Fatto sta che la Origoni smentisce categoricamente e decisamente di aver lavorato alla Scala di Milano prima del 1946, a guerra finita. Avendone i finanziamenti e sufficiente interesse, un ricercatore dovrebbe esplorare gli archivi della Scala di Milano, ove ancora esistano, per rintracciare il nome Lia Origoni e l’anno in cui incomincia a lavorare per la Scala di Milano. Potremmo poi seguire tante altre strada: l’averle percorse, sia pure con esito negativo, è già una forma di ricerca, è già parte della ricerca. Dall’articolo di Pezzetti del 1° marzo sembra di capire, quando dice che non esistono altri documenti, che egli si riferisca solamente al libro che cita e che pubblica l’unico documento, su cui si è basato per l’intervista del 27 gennaio e che quindi non è un documento inedito, se di questo e solo di questo si tratta.
La Rete comunque è una grande risorsa, dove a costo zero, si trovano spesso dati interessanti e significativo, come ad esempio questo link,
il Discobolo, dove è tracciata una breve biografia della Origoni da cui riportiamo alcuni dati che la Signora riconosce corretti, mentre non lo sarebbero altri- Il dato che qui a noi interessa è l’anno 1946. La signora Lia, lucidissima, dice che lei con Macario non c’entra, ma è invece esatto il riferimento agli anni anni 1942-43 e 1946, i riscontri che a noi storicamente interessano e che dimostrano che la Scala di Milano proprio non c’entra! Non c’azzecca nulla! direbbe Di Pietro. Tanto dilettantismo da parte degli organizzatori della mostra, che si sono eretti a padroni e governatori della nostra Memoria è inaudito e imperdonabile. Si trovano. dunque, riscontri, da fonte terza, non “di parte”, che confermano pienamente le dichiarazioni della signora Lia. Se gli organizzatori della mostra, suppongo lautamente pagati, avessero cercato in rete, avrebbero probabilmente evitato di chiamare indebitamente in causa e la signora Origoni ed in particolare la massima istituzione musicale del Paese, cioè il teatro La Scala di Milano. Questi signori ritengono che a loro sia tutto concesso, che tutto possono permettersi.
Veramente me lo aspettavo e non voleva telefonare a Marcello Pezzetti. Avevo però preso le mie precauzioni, non ricordando se anche Pezzetti fosse nel corso di quanti con Piero Marrazzo avrebbero voluto “guardarmi negli occhi”, supponendo che fosse verità di stato quanto a “La Repubblica” si erano inventati dalla sera alla mattina. Addirittura “La Repubblica” titolava «Shock alla Sapienza», dove era assolutamente tutto tranquillo, non volava una mosca, neppure le foglie si muovevano, fino a quando lo shock non ebbe a crearlo proprio “La Repubblica”. Ci era cascato anche il mio Rettore, che adesso mi consiglia su quale cifra mi conviene accordarmi con Repubblica per il risarcimento, a suo avviso dovuto. Su questo abbiamo delle divergenze, io ed il Rettore, che di fronte a tanto clamore ed ai politici che lo pressavano in tutti modi per avere la mia testa ha giudicato saggio demandare tutto ad un organo terzo, neutrale e da lui indipendente: il Collegio di Disciplina del Consiglio Universitario Nazionale, dove la mia assoluta innocenza, per mancanza assoluta del fatto è subito parsa chiara. Ma questo Pezzetti non lo sa e non lo vuole neppure sapere. Mi ero qualificato al telefono, datomi dalla ditta che ha in subappalto la mostra, semplicemente come un “visitatore della mostra” che chiedeva lumi sulla mostra. Evidentemente, Marcello era sull’avviso ed aspettava la mia telefonata. Ed eccolo subito che voleva sapere il mio nome per dirmi che lui con uno che... non parlava. Questo atteggiamento è tipico di Lorsignori che reclamano risarcimenti perpretui a nome dei Discriminati per antonomasia. Lascio impregiudicato quanto grande storico sia Marcello Pezzetti, ma mi sembra del tutto ignorante sul dettato dell’art. 3 della vigente costituzione italiana che recita: «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Io ero solo un visitatore della mostra, suppongo pagata con i soldi del contribuente italiano. E non chiedevo altro che di poter vedere un particolare documento. Ma il Pezzetti non mi ha lasciato neppure aprire bocca. Ha voluto il mio nome per bollarmi per i secoli come il “negazionista” con il quale non si parla, ma il quale voleva semplicemente la locandina che attestava come La Scala di Milano nella persona di Lia Origoni era in Auschwitz nel febbraio 1943 per far divertire carcerieri e carcerati. Non sapendo che fare ho redatto la seguente lettera che ho mandato all’indirizzo di chi mi aveva chiesto di telefonare al curatore della mostra Marcello Pezzetti, per avere quei chiarimenti che la ditta subappaltatrice non era in grado di fornire. Ecco il testo della Lettera:«Agli Organizzatori della Mostra sulla “Shoah etc.” al Vittoriano
– Ai suoi responsabili amministrativi, scientifici, finanziari
Loro Sedi - Loro Uffici
E p.c.
Alla Signora Lia Origoni
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Oggetto: formale richiesta di accesso alla mostra e alla visione dei documenti, specificamente al “documento Origoni”.
Faccio esplicita richiesta di poter vedere la documentazione relativa a Lia Origoni, su cui vi sono stati almeno tre articoli di stampa sul “Corriere della Sera”.
Probabilmente, sarà stata una mia svista, ma facendo per due volte il giro della mostra, non ho trovato né la “Locandina” né il documento “inedito” annunciato a mezzo stampa né altro che riguardasse Lia Origoni.
Chiedo cortesemente che mi venga indicato il punto preciso dove si trova e mi sia consentito di visionare una siffatta documentazione di «eccezionale importanza», a detta del signor Pezzetti.
Sono un cittadino italiano e mi appello all’art. 3 della costituzione che sancisce il principio di eguaglianza e di non discriminazione di tutti i cittadini.
Qualificandomi come “un visitatore”, mi sono rivolto – come indirizzato dalla ditta “Comunicare Organizzando” – telefonicamente, questa mattina, al curatore signor Pezzetti, il quale però, chiesto e saputo il mio nome, non solo non mi ha fornito le notizie richieste, ma mi ha anche insolentito, sulla base, ritengo, di una orchestrazione di stampa apparsa nello scorso ottobre su “La Repubblica”, che fa il paio con analoghi articoli di stampa, a mio avviso, ingenerosi verso la Signora Lia Origoni, forse secondo un disegno di politica culturale ad opera di soggetti ed associazioni non bene identificabili.
Senza esserne minimamente tenuto, ma perché il signor Pezzetti è subito scattato al solo sentire il mio nome e senza voler ascoltare spiegazioni di sorta, trasmetto al curatore della mostra, signor Pezzetti, per carità cristiana, in allegato, la mia Memoria difensiva, disponibile anche in rete, con commenti e integrazioni, insieme con la
COMUNICAZIONE FORMALE
del mio proscioglimento con formula piena da parte del Collegio di Disciplina del Consiglio Universitario Nazionale avvenuto in data 13 gennaio 2010.
Comunico altresì la notizia dell’avvio di azione civile risarcitoria contro il quotidiano “La Repubblica” con citazione già notificata e data di prima udienza già fissata.
Stigmatizzo il comportamento incivile del signori Pezzetti, contrario ad ogni deontologia professionale. La documentazione annunciata è per me utile ai fini di uno studio in rete che vado facendo, per mero diletto, traendone non poco divertimento davanti a quello che mi appare come un evidente dilettantismo ed una inammissibile superficialità dei curatori della mostra. Salvo che il signor Pezzetti non mi fornisca le prove “scientifiche” di quanto da lui dichiarato a mezzo stampa, riguardo il coinvolgimento della signora Origoni e del teatro della Scala di Milano nel campo di concentramento di Auschwitz. Voleva essere questo e nessun altro l’oggetto della mia richiesta telefonica, troncata quasi subito dal ricevente signor Pezzetti.
Naturalmente le mie conclusioni sono ancora parziali ed aspetto che il signor Pezzetti, o chi per lui, mi fornisca la documentazione da me richiesta, cioè l’indicazione delle mera visione del documento che dovrebbe essere in mostra pubblica. Ove il signor Pezzetti persistesse in pubblico nella sua irriferibile risposta telefonica, trasmetterò ai miei legali per quanto di competenza.
Distintamente
Antonio Caracciolo
Non so se avrò risposta, se ad uno come me, la costituzione vigente consente di avere una risposta. Dubito a questo punto che il curatore della mostra sia in grado di dare una qualsiasi risposta che mi eviti di credere al suo dilettantismo. In questo senso ammetto di essere un “negazionista”: non credo nella professionalità e nella deontologia di Marcello Pezzetti. È più non dico, ma ognuno che legge può aggiungervi del suo.